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III.
IL PICCOLO PATRIOTTA PADOVANO

UN piroscafo francese partì da Barcellona, città della Spagna, per Genova; e c'erano a bordo francesi, italiani, spagnuoli, svizzeri. C'era, fra gli altri, un ragazzo di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l'occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l'occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l'avevano venduto al capo d'una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l'era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai. Arrivato a Barcellona, non potendo più reggere alle percosse e alla fame, ridotto in uno stato da far pietà, era fuggito dal suo aguzzino, e corso a chieder protezione al Console d'Italia; il quale, impietosito, l'aveva imbarcato su quel piroscafo, dandogli una lettera per il Questore di Genova, che doveva rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che l'avevan venduto come una bestia.

Il povero ragazzo era lacero e malaticcio. Gli avevan dato una cabina nella seconda classe. Tutti lo guardavano; qualcuno lo interrogava: ma egli non rispondeva, e pareva che odiasse e disprezzasse tutti, tanto l'avevano inasprito e intristito le privazioni e le busse. Tre viaggiatori, non di meno, a forza d'insistere con le domande, riuscirono a fargli snodare la lingua, e in poche parole rozze, miste di veneto, di spagnuolo e di francese, egli raccontò la sua storia. Non erano italiani quei tre viaggiatori; ma capirono, e un poco per compassione, un poco perchè eccitati dal vino, gli diedero dei soldi, celiando e stuzzicandolo perchè raccontasse altre cose; ed essendo entrate nella sala, in quel momento, alcune signore, tutti e tre, per farsi vedere,51 gli diedero ancora del denaro, gridando:—Piglia questo!—Piglia quest'altro!—e facendo sonar le monete sulla tavola. Il ragazzo intascò ogni cosa, ringraziando a mezza voce, col suo fare burbero, ma con uno sguardo per la prima volta sorridente e affettuoso. Poi s'arrampicò nella sua cabina, tirò la tenda, e stette queto, pensando ai fatti suoi. Con quei danari poteva assaggiare qualche buon boccone a bordo, dopo due anni che stentava il pane; poteva comprarsi una giacchetta, appena sbarcato a Genova, dopo due anni che andava vestito di cenci: e poteva anche, portandoli a casa, farsi accogliere da suo padre e da sua madre un poco più umanamente che non l'avrebbero accolto se fosse arrivato con le tasche vuote. Erano una piccola fortuna per lui quei denari. E a questo egli pensava, racconsolato, dietro la tenda della sua cabina, mentre i tre viaggiatori discorrevano, seduti alla tavola da pranzo, in mezzo alla sala della seconda classe. Bevevano e discorrevano dei loro viaggi e dei paesi che avevan veduti, e di discorso in discorso,52 vennero a ragionare dell'Italia. Cominciò uno a lagnarsi degli alberghi, un altro delle strade ferrate, e poi tutti insieme, infervorandosi, presero a dir male d'ogni cosa. Uno avrebbe preferito di viaggiare in Lapponia; un altro diceva di non aver trovato in Italia che truffatori e briganti; il terzo, che gl'impiegati italiani non sanno leggere.—Un popolo ignorante,—ripetè il primo.—Sudicio,—aggiunse il secondo.—La…—esclamò il terzo: e voleva dir ladro, ma non potè finir la parola: una tempesta di soldi e di mezze lire si rovesciò sulle loro teste e sulle loro spalle, e saltellò sul tavolo e sull'impiantito con un fracasso d'inferno.53 Tutti e tre s'alzarono furiosi, guardando all'in su, e ricevettero ancora una manata di soldi sulla faccia.—Ripigliatevi i vostri soldi,—disse con disprezzo il ragazzo, affacciato fuor della tenda della cabina;—io non accetto l'elemosina da chi insulta il mio paese.

EDMONDO DE AMICIS.

IV.
LA PICCOLA VEDETTA LOMBARDA

NEL 1859, durante la guerra per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino,54 vinta dai Francesi e dagli Italiani contro gli Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di cavalleggieri di Saluzzo55 andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il nemico, esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un ufficiale e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sè, con occhio fisso, muti, preparati a veder da un momento all'altro biancheggiare fra gli alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo ramo con un coltello, per farsene un bastoncino: da una finestra della casa spenzolava una larga bandiera tricolore: dentro non c'era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi: era in maniche di camicia, e mostrava il petto nudo.

–Che fai qui?—gli domandò l'ufficiale, fermando il cavallo.—Perchè non sei fuggito con la tua famiglia?

–Io non ho famiglia,—rispose il ragazzo.—Sono un trovatello. Lavoro un po' per tutti. Son rimasto qui per veder la guerra.

–Hai visto passar degli Austriaci?

–No, da tre giorni.

L'ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto.... La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna.—Bisogna salir sugli alberi,—disse l'ufficiale, e discese. Proprio davanti all'aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell'azzurro. L'ufficiale rimase un po' sopra pensiero, guardando ora l'albero ora i soldati; poi tutt'a un tratto domandò al ragazzo:

–Hai buona vista, tu, monello?

–Io?—rispose il ragazzo.—Io vedo un passerotto lontano un miglio.

–Saresti buono a salire in cima a quell'albero?

–In cima a quell'albero? io? In mezzo minuto ci salgo.

–E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se c'è soldati austriaci da quella parte, nuvoli di polvere, fucili che luccicano, cavalli?

–Sicuro che saprei.

–Che cosa vuoi per farmi questo servizio?

–Che cosa voglio?—disse il ragazzo sorridendo.—Niente. Bella cosa!56 E poi… se fosse per i tedeschi, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono lombardo.

–Bene. Va su dunque.

–Un momento, che mi levi le scarpe.

Si levò le scarpe, si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell'erba il berretto e abbracciò il tronco del frassino.

–Ma bada…—esclamò l'uffiziale, facendo l'atto di trattenerlo, come preso da un timore improvviso.

Il ragazzo si voltò a guardarlo, coi suoi begli occhi celesti, in atto interrogativo.

–Niente,—disse l'uffiziale;—va su.

Il ragazzo andò su, come un gatto.

–Guardate davanti a voi,—gridò l'uffiziale ai soldati.

In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell'albero, avviticchiato al fusto, con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul capo biondo, che pareva d'oro. L'uffiziale lo vedeva appena, tanto era piccino lassù.

–Guarda dritto e lontano,—gridò l'uffiziale.

Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall'albero e se la mise alla fronte.

–Che cosa vedi?—domandò l'uffiziale.

Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano, rispose:—Due uomini a cavallo, sulla strada bianca.

–A che distanza di qui?

–Mezzo miglio.

–Movono?

–Son fermi.

–Che altro vedi?—domandò l'uffiziale, dopo un momento di silenzio.—Guarda a destra.

Il ragazzo guardò a destra.

Poi disse:—Vicino al cimitero, tra gli alberi, c'è qualche cosa che luccica. Paiono baionette.

–Vedi gente?

–No. Saran57 nascosti nel grano.

In quel momento un fischio di palla acutissimo passò alto per l'aria e andò a morire lontano dietro alla casa.

–Scendi, ragazzo!—gridò l'ufficiale.—T'han visto. Non voglio altro. Vien giù.

–Io non ho paura,—rispose il ragazzo.

–Scendi…—ripetè l'uffiziale,—che altro vedi, a sinistra?

–A sinistra?

–Sì, a sinistra.

Il ragazzo sporse il capo a sinistra: in quel punto un altro fischio più acuto e più basso del primo tagliò l'aria.—Il ragazzo si riscosse tutto.—Accidenti!—esclamò.—L'hanno proprio con me!58—La palla gli era passata poco lontano.

–A basso!—gridò l'uffiziale, imperioso e irritato.

–Scendo subito,—rispose il ragazzo.—Ma l'albero mi ripara, non dubiti.59 A sinistra, vuole sapere?

–A sinistra,—rispose l'uffiziale;—ma scendi.

–A sinistra,—gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte,—dove c'è una cappella mi par di veder....

Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto60 si vide il ragazzo venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a capo fitto colle braccia aperte.

–Maledizione!—gridò l'uffiziale, accorrendo.

Il ragazzo battè della schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino; un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra. Il sergente e due soldati saltaron giù da cavallo; l'uffiziale si chinò e gli aprì la camicia: la palla gli era entrata nel polmone sinistro.—È morto!—esclamò l'uffiziale.—No, vive!—rispose il sergente.—Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo!—gridò l'uffiziale;—coraggio! coraggio!—Ma mentre gli diceva coraggio e gli premeva il fazzoletto sulla ferita, il ragazzo stralunò gli occhi e abbandonò il capo; era morto. L'uffiziale impallidì, e lo guardò fisso un momento;—poi lo adagiò col capo sull'erba;—s'alzò, e stette a guardarlo;—anche il sergente e i due soldati, immobili, lo guardavano:—gli altri stavan rivolti verso il nemico.

–Povero ragazzo!—ripetè tristamente l'uffiziale.—Povero e bravo ragazzo!

Poi s'avvicinò alla casa, levò dalla finestra la bandiera tricolore, e la distese come un drappo funebre sul piccolo morto, lasciandogli il viso scoperto. Il sergente raccolse a fianco del morto le scarpe, il berretto, il bastoncino e il coltello.

Stettero ancora un momento silenziosi; poi l'ufficiale si rivolse al sergente e gli disse:—Lo manderemo a pigliare61 dall'ambulanza: è morto da soldato; lo seppelliranno i soldati.—Detto questo mandò un bacio al morto con un atto della mano e gridò:—A cavallo.—Tutti balzarono in sella, il drappello si riunì e riprese il suo cammino.

E poche ore dopo il piccolo morto ebbe i suoi onori di guerra.

Al tramontare del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s'avanzava verso il nemico, e per lo stesso cammino stato percorso62 la mattina dal drappello di cavalleria, procedeva su due file un grosso battaglione di bersaglieri, il quale, pochi giorni innanzi, aveva valorosamente rigato di sangue il colle di San Martino. La notizia della morte del ragazzo era già corsa fra quei soldati prima che lasciassero gli accampamenti. Il sentiero, fiancheggiato da un rigagnolo, passava a pochi passi di distanza dalla casa. Quando i primi uffiziali del battaglione videro il piccolo cadavere disteso ai piedi del frassino e coperto dalla bandiera tricolore, lo salutarono con la sciabola; e uno di essi si chinò sopra la sponda del rigagnolo, ch'era tutta fiorita, strappò due fiori e glieli gettò. Allora tutti i bersaglieri, via via che passavano, strapparono dei fiori e li gettarono al morto. In pochi minuti il ragazzo fu coperto di fiori, e uffiziali e soldati gli mandavan tutti un saluto passando:—Bravo, piccolo lombardo!—Addio, ragazzo!—A te, biondino!—Evviva!—Gloria!—Addio!—Un uffiziale gli gettò la sua medaglia al valore, un altro andò a baciargli la fronte. E i fiori continuavano a piovergli sui piedi nudi, sul petto insanguinato, sul capo biondo. Ed egli se ne dormiva là nell'erba, ravvolto nella sua bandiera, col viso bianco e quasi sorridente, povero ragazzo, come se sentisse quei saluti, e fosse contento d'aver dato la vita per la sua Lombardia.

EDMONDO DE AMICIS.

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