Ai membri ordinarii della Congregazione, oltre il conte Gabrio Casati podestà e gli assessori Antonio Beretta e conte Cesare Giulini, si aggiunsero Vitaliano Borromeo, Franco Borgia, Alessandro Porro, Teodoro Lecchi, Giuseppe Durini, Anselmo Guerrieri, Enrico Guicciardi e Gaetano Strigelli.
E il Governo provvisorio nominava un Comitato di guerra, poi uno di difesa, uno di pubblica sicurezza, uno di finanza, uno di sanità e per ultimo uno di sussistenza.
Troppo governo, direte voi: ma chi potrà accusare di troppa voluttà di comando chi ha sempre ubbidito; ubbidito a forza e a tiranni odiosi? Chi potrà accusare di intemperanza un affamato, che a un tratto siede ad una mensa lautamente imbandita? L'ebbrezza non è soltanto nel fondo delle bottiglie, ma in ogni battaglia vinta, sia poi d'amore, di gloria o di libertà. E in quei giorni noi tutti, anch'io quasi fanciullo, eravamo ebbri d'indipendenza e di lotta.
Il 20 di marzo un maggiore croato si presentava come parlamentare in casa Taverna, portando una proposta del maresciallo Radetzki, quella di sospendere per tre giorni le ostilità.
Eran presenti a riceverlo i membri del Governo provvisorio, quelli del Comitato di guerra e quelli del Comitato di difesa: in tutto 14 o 15 cittadini. La proposta fu respinta, e fucili e cannoni continuarono la loro crudele missione.
Fra le molte scaramuccie, fra i molti assalti, che avvennero in quei cinque giorni, due assunsero aspetto di veri fatti di guerra, che meritano una pagina nella storia della strategia e della tattica: voglio dire la presa del Genio e quella di Porta Tosa.
Il Genio, che era allora dove è oggi la monumentale fortezza della Cassa di Risparmio, era il cuore della difesa degli Austriaci. Dal Castello e dalle porte partivano i fulmini, ma dal Genio emanavano le correnti che li sprigionavano. Là era il cervello, là il denaro, là le carte del governo.
E da ogni finestra i migliori tiratori tirolesi facevano piovere palle di piombo sui cittadini armati, che volevano entrarvi e si andavano avvicinando di barricata in barricata, di tetto in tetto. E seminando di morti e di feriti le vie e innondando di sangue i ciottoli e i marciapiedi, si andava innanzi; la porta che resisteva, forte per natura e barricata per di dentro, fu schiantata da due cannoncini di legno cerchiati di ferro, che furono improvvisati dai Milanesi, fatti inventori di una nuovissima artiglieria. Io li ho veduti quei cannoncini, anneriti, feriti anch'essi, che parevano giocattoli da bimbi, ma che pure avevano vinto il Genio austriaco. Augusto Anfossi, l'anima e il cuore delle cinque giornate, l'eroe primo di quella battaglia tanto disuguale, lasciava la vita in quel'assalto.
Dove si fece il maggior fuoco fu però a Porta Tosa, dove gli Austriaci con cannoni e battaglioni ben armati, difendevano una delle più forti posizioni, fulminando la città. Il Corso che conduceva alla porta era troppo largo, perchè vi si potessero piantare barricate forti e solide, che potessero difendere gli assalitori e resistere alle artiglierie.
I Milanesi pensarono di fare delle barricate mobili e le ho viste anch'io e le ammirai come un'altra improvvisazione della strategia rivoluzionaria.
Eran fatte di grosse fascine legate in forma cilindrica, lunghe due o tre metri e grosse un metro che si facevano rotolare a forza di spalle, e i nostri tiratori dietro ad esse ben difesi poterono sloggiare gli Austriaci e prender la Porta, che a buon diritto fu battezzata da quel giorno col nome di Porta Vittoria.
Mi par di vederle ancora quelle barricate mobili, che frantumate dalle palle nemiche lasciavano escire da cento ferite le loro viscere lacerate. Ma accanto a quel ricordo, che potrei tradurre in un quadro, se fossi pittore, ce n'è ancora un altro, quello delle acque, che corrono in quei dintorni e che vidi rosse, come se fossero state tinte col carminio. E mi parve a quel tragico colore, che in quell'onda quasi ferma vi dovesse esser più sangue che acqua.
Di quel sangue però nessuna goccia era mia… e leggendo oggi il mio vecchio giornale di ora è mezzo secolo, vi leggo con stile infantile queste parole:
Io invidio i miei fratelli, che hanno combattuto per la patria e hanno posto il nome dei Milanesi fra gli eroi i più generosi e robusti…
Se non sono stato fra i combattenti, fui però di sentinella alle barricate, e anche di notte e con nessun altr'arme che una gran scimitarra turca, che avevo chiesto a mio padre. Come ero fiero di passeggiare in su e in giù davanti alle barricate, colla mia scimitarra appoggiata alla spalle e gridando il Chi va là? ai passeggeri, ai quali chiedevo la parola d'ordine. Mi pareva d'essere la sentinella perduta di un vero accampamento di guerra…
Con quella scimitarra e naturalmente colla mia coccarda tricolore, andavo a far le provviste di cucina colla serva, quasi a difenderla, e in quei giorni non era davvero facile il percorrere anche un piccolo tratto di cammino, essendo quasi ogni via interrotta dalle barricate, che furono calcolate a circa 2000.
La nostra serva si credeva difesa da quel giovane guerriero e da quella scimitarra turca! Povera difesa! – Io ero così gracile, così sottile in quell'epoca, che un croato, incontrandomi, mi avrebbe con un pugno gettato a terra e disarmato.
Da sentinella di barricate passai dopo le cinque giornate a guardia nazionale, e ricordo le notti passate sul tavolaccio nel Palazzo Trivulzio e nel Palazzo Marino. Allora, però, invece della gran sciabola avevo un fucile.
Un mattino alle 5 dovetti con altri militi della guardia civica condurre al Castello cinque soldati austriaci nostri prigionieri, e lì ebbi la gioia di vedere la prima cavalleria piemontese che partiva per il campo.
Ricordo ancora che un altro giorno tutti i Civici di Sant'Alessandro furono riuniti sulla piazza dello stesso nome, e di là ci avviammo al Broletto, al suono allegro del tamburo e seguendo la grande bandiera tricolore, che si amava come una fanciulla, come una mamma; come la poesia incarnata della patria.
Giunti al gran cortile del Broletto ci schierammo per eleggere i nostri capi e per acclamazione si nominò nostro capitano il marchese Trivulzi, che era però a letto con una palla in una coscia. Con lui furono eletti i tenenti e poi si ritornò al palazzo Trivulzi, dove sotto le sue finestre si gridarono evviva fragorosi al nostro Duce. La signora marchesa, commossa, scese a salutarci, e ci promise che ella stessa ci avrebbe ricamata una bandiera.
Se mi lasciassi andare alla voluttà dei lontani ricordi, non la finirei più. Lasciatemi solo richiamarne uno di poca importanza, ma che vi mostrerà in qual'aria di idealismo generoso si respirasse a Milano in quei giorni.
Mentre si trattava l'armistizio proposto dal Radetzki, io escii col mio solito sciabolone e mi avviai verso il teatro della Scala. Tacevano le campane, che erano il tormento indicibile dell'esercito austriaco, tacevano le fucilate, tacevano i cannoni.
Giunto nella via di Santa Margherita, dove era l'Ufficio della Polizia e che era tutta barricata, vidi che le finestre erano occupate da cittadini, che gettavan giù a cento a cento cartoni pieni di carte, fascicoli, libri, tutta la triste biblioteca di quella casa, che era in una volta sola covo di spie, fucina di tirannide e carcere di tante vittime.
Quel pandemonio era stato abbandonato dai tiranni, ed ora era in mano delle vittime, che prendevano la loro vendetta sulle carte.
Io raccolsi parecchi fogli timbrati dall'aquila grifagna, e mentre li stava per leggere, un colpo di mitraglia venne a colpire una barricata assai vicina a quella in cui mi trovavo, facendo un rumore strano, come di cento latte che fossero lacerate in una volta sola. Tutti i presenti si addossarono al muro, ed io visto che il colpo non si ripeteva più, corsi in mezzo alla via e raccolsi due o tre pallottole di ferro, ancora fumanti. Facevan parte di quella rozza mitraglia d'allora ed eran piene di chiodi e perfino di pezzi infranti di ferri di cavallo.
A quel tiro, però, tennero dietro dopo un piccolo silenzio altri tiri, ed essi ci dicevano ad alta voce che l'armistizio era stato respinto e che la lotta ripigliava il suo andare.
Portai a casa i miei fogli e li diedi a vedere alla mamma, colla quale stava per leggerli con viva curiosità. Ma la mamma mi disse, impallidendo e inorridita: Sono rapporti segreti di spie italiane… ahimè! e sono firmati. Non voglio leggere quei nomi… bruciamo questi fogli, subito subito.
E quei fogli furon bruciati con mio grande dolore, non per la curiosità delusa delle firme infami; ma perchè in me nasceva già il futuro psicologo, che doveva finire sulla cattedra d'antropologia di Firenze. Quei fogli eran per me documenti umani, che oggi figurerebbero nel mio Museo psicologico.
Li ho rammentati, perchè il sentimento generoso che aveva ispirato mia madre a distruggerli, era in quei giorni l'ambiente in cui si viveva, era l'aria che si respirava noi tutti.
Se entrava un cittadino armato in un caffè, chiedendo un rinfresco, quando stava per pagarlo, gli si rispondeva con un gesto di grande meraviglia: Ma ghe par? oppure O giust!
I feriti eran raccolti subito e alloggiati dove cadevano. In tutte le case signore e signorine vegliavano le notti, fabbricando filaccia o cucendo bandiere tricolori e ho veduto strappare pezzuole di tela battista d'immenso valore, quando per far filaccie si era dato fondo a tutti i cenci vecchi della casa.
Uno dei nostri tiranni poliziotti più odiato era il Bolza. Sapendosi aborrito, nelle cinque giornate si era nascosto in un fienile, ma fu scoperto e preso. A furia di popolo, più trascinato che condotto, fu portato non so a qual Comitato davanti a Carlo Cattaneo, chiedendogli che genere di supplizio doveva essere inflitto a quel boia. Il Bolza era già più morto che vivo, più pallido di un cadavere e coperto di fieno, che lo rendeva grottescamente orrendo.
Il Cattaneo sereno e tranquillo rispose:
Se lo uccideste, fareste cosa giusta, ma se lo lasciate in libertà, farete cosa santa e degna di un popolo vittorioso, e che aspira alla libertà.
E il Bolza fu lasciato libero.
Quarantottate, diranno alcuni, ma a questa bestemmia ritornerò fra poco.
I popoli vivono tutti in un dato clima fisico, che è l'aria per i polmoni e che respiran tutti, ricchi e poveri, contadini nel campo, operai nelle vie, principi nei palazzi. È un clima che li avvicina e li affratella.
Ma vi è un clima più efficace, più tirannico, e che è, per il cervello e per il cuore, ciò che è l'aria per il polmone. È l'ambiente morale, che diffonde la sua influenza sottile, penetrante, irresistibile in ogni vena della vita pubblica; che fa battere ogni polso di uomo che pensa e sente. Nessuno può sfuggirvi, nessuno resistervi.
Quell'ambiente ora è salubre ed ora è mefitico, ora è inebriante ed ora è deprimente ed è fatto dai sentimenti umani che fanno palpitare il cuore di una nazione. Se l'orgoglio nazionale è alto, e legittimamente alto, quell'ambiente vuol dire gioia, entusiasmo, carità, idealismo. Se l'orgoglio è depresso, quell'ambiente vuol dire tristezza, sentimento, scetticismo, fors'anche cinismo.
Se quell'ambiente è fatto di gloria e di ricchezza vuol dire salute morale, energia, generosità, eroismo. Se invece è fatto di paure e di pentimenti, vuol dire affarismo, viltà collettive, vuol dire marasmo delle anime.
In quei cinque giorni Milano respirava bene, respirava a pieni polmoni l'aria della vittoria e della libertà ed era perciò nobile, generosa, idealista.
E dacchè vi ho intrattenuto sempre del 48, permettetemi che nel chiudere la mia conferenza getti un grido di sdegno contro la brutta parola di quarantottate, che pur si ripete più di una volta, e soprattutto dai giovani serii, che non hanno potuto battersi e dai vecchi serissimi, che non si son battuti mai.
Per questi signori, quarantottata vuol dire una dimostrazione un po' chiassosa, un entusiasmo collettivo espresso forse con uno scampanio troppo rumoroso; è insomma ogni espressione patriottica, che si presenti sotto forma troppo arcadica o troppo ingenua.
Si cancelli dalla lingua parlata, dal frasario politico questa parola, che è una barbarie.
Bestemmia contro tutto ciò che nell'uomo si ha di divino; cioè l'idealità, l'eroismo, l'amor di patria.
Il 48 fu un sogno, un'illusione, un disinganno. Si credette che il cuore bastasse senza il cervello. Lo credettero i milanesi, lo credette anche Carlo Alberto, quando affrontò l'armata austriaca col piccolo esercito del piccolo Piemonte.
Ma sogni, ma illusioni, ma disinganni che ci portarono al 59, al 66, al 70; e il quarantotto con le sue quarantottate fu un delirio di amor di patria, fu un trasporto che lasciò il cielo pieno di luce, e che fecondò la terra nostra col sangue dei primi martiri.
Anche i vecchi deridono le follie della giovinezza, ma più spesso che per saviezza, per invidia di non esserne più capaci.
E quando ascolto i giovani, che nel 48 non erano ancor nati, deridere le quarantottate, esclamo:
«Ecco dei giovani vecchi, che deridono dei vecchi giovani!»
Le barricate, spero, non si innalzeranno più in Italia e forse anche non avremo più bisogno di rivoluzioni; ma ai giovani che bestemmiano, pronunziando in tuono di scherno, la parola di quarantottate, io che li amo, auguro loro che nella lor vita provino anch'essi la suprema voluttà degli entusiasmi patriottici, delle idealità sovrumane, ci vengano poi dal cielo o dalla terra.
Il divino nell'umano è l'entusiasmo, e chi muore senza averlo goduto, non ha vissuto mai!
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