Che la battaglia si fosse impegnata, anche senza i colpi di cannone e senza le fucilate, io avrei dovuto già saperlo, perchè fra il popolo che trascinava le carrozze e le gettava gambe all'aria, avevo veduto due cittadini vestiti colle spoglie di due soldati di fanteria, e due altri colle giacche di due ussari. Avevo visto un altro, che correva schiamazzando e gridando, ebbro di gioia e che sulla punta di una spada portava il cappello d'un soldato.
Intanto pioveva a dirotto, ma la pioggia non impediva che corressero per le vie drappelli di cittadini, e che alle 24 gridassero: Fuori i lumi! Fuori i lumi!
Fu in quell'ora che 15 o 20 croati, malgrado le barricate, passarono correndo e tirando in aria verso le finestre chiuse colpi di fucile.
Ma lasciamo il povero giovinetto, che si accontentava di prendere una scheggia della terribile aquila grifagna e vediamo che cosa volesse e facesse in quel giorno la città di Milano.
Questa pacifica città voleva assai più di quel giovanetto: voleva almeno ciò che l'Imperatore aveva dato a Vienna, che per una strana coincidenza insorse anch'essa il 18 di marzo.
Vienna è in rivoluzione e i Milanesi esclamano: Se tanto si fa dai Viennesi, come staremo noi tranquilli?
Già da molti giorni, se di fuori nessun sintomo esteriore diceva che Milano era minacciata da una gran febbre, la polizia però aveva toccato il polso alla città ed era inquieta. L'arciduca Ranieri partiva con tutta la sua famiglia per Verona il 16 marzo, accompagnato da un reggimento di granatieri italiani, che non si credeva prudente lasciare in quella città. E prima di lui era partito anche lo Spaur, governatore della Lombardia, lasciandovi il vicepresidente O'Donnell.
La mattina del 18 marzo si legge su tutti i canti delle vie un editto imperiale e reale, nel quale si diceva che Sua Maestà ha determinato di concedere ai suoi popoli istituzioni liberali, e convocherà i rappresentanti dei diversi paesi a Vienna per il 3 luglio.
Sapete tutti che quando si vuol elevare la temperatura di un forno vi si getta un po' d'acqua. Molta acqua lo spegnerebbe, ma pochina lo ravviva. L'ordinanza imperiale fece l'effetto di quella poca acqua.
Per tutte le vie si formano capannelli di persone, che anche senza conoscersi, per l'emozione comune e forte che ne fa battere il cuore, diventano amici, quasi parenti per un momento. Vi è una consanguineità più calda di quella del sangue, ed è quella del sentimento e del pensiero. In una rivoluzione tutti quelli che s'incontrano diventan più che amici, fratelli.
E in quei crocchi si sente dire:
Oggi si fa la dimostrazione al Governo. – Vanno tutti al Broletto. – Bisogna finirla. – Vienna è insorta: non è più tempo di dimostrazioni; ci vogliono dei fatti.
Quelle esclamazioni (che esclamazioni erano e non discorsi), sottolineate dall'accento poderoso e dalle voci grosse, esprimevano due opposte correnti, che in ogni moto popolare delineano i temperamenti di due diversi caratteri, il prudente ed il violento.
Dall'una parte si vuole raggiungere lo scopo per le vie legali: dall'altra si vuole la lotta, la guerra; si aspira con voluttà al sangue.
Alle 10 del mattino tutta Milano era in moto; non v'era mente che stesse ferma, non cuore che non battesse più forte.
Il carattere violento trascina il carattere prudente. La folla irrompe nella bottega del Colombi, il primo armaiuolo di Milano, e la svaligia. Ne escono con pistole, con fucili da caccia, con carabine, con sciabole; con tutto ciò che può uccidere.
Ma le armi non bastano; si dirigono tutti al Borgo Monforte, dove è il Palazzo di Governo e il Torelli si unisce alla folla. Domanda che cosa si vuole e gli rispondono: Si fa una grande dimostrazione per appoggiare la domanda di concessioni che si vogliono dal Governo e quanto prima verrà il Municipio, verrà anche il Delegato (Prefetto) in persona.
Più in là il Torelli vede un giovane, che escito dalla bottega di un tappezziere, con un grosso ferro acuto e forte, tenta di smuovere il selciato per fare una barricata.
Ma gli gridano: No, no, a che pro vuoi rovinare la strada?
Ancora e sempre violenza e prudenza, che vogliono la stessa cosa, ma per diverse vie.
Intanto la folla si urta, si addensa, corre e divien fiume, corrente, che trascina ogni cosa che incontra.
Si ode gridare: Sono qui, sono qui!
È infatti la Deputazione solenne, che si avvia a chiedere al Governo le concessioni.
Avanza lentamente, solo gli uscieri e i pompieri possono difenderla dall'onda del popolo e permetterle di andare innanzi.
Guardate quei coraggiosi. Sono il delegato provinciale Antonio Bellati, il podestà conte Gabrio Casati, e intorno ad essi assessori, cittadini notevoli per censo e per fama.
Popolo e deputazione giungono al Palazzo, l'onda del popolo ne invade cortile, scale, e su su è entrata nelle sale, negli uffici, dovunque. Si ferma forse l'acqua torbida di un fiume, quando travolge alberi e armenti e case, ed uomini e cose?
Quelli che sono rimasti fuori si sentono cader sulle spalle registri, libri e per l'aria volano fogli, lettere.
Il Torelli, rimasto addietro, penetra più tardi nel palazzo, e sotto il portico vede da un materasso gettato a terra escire due paia di piedi calzati come sono i soldati ungheresi. Quei piedi sono immobili. Sono di due cadaveri, delle due sentinelle che erano alla porta del Palazzo e che, avendo voluto opporsi all'onda del popolo, erano state uccise, l'uno con un colpo di pistola, l'altro colla stessa baionetta di cui era armato il suo fucile.
Povere ed innocenti vittime del dovere professionale! Il libro degli Edda lo ha detto da tanti secoli. Nessuno è forte contro tutti. E quei poveri soldati giacciono lì sotto quel pietoso materasso che solo li nasconde alla curiosità del popolo tumultuante, e le loro povere madri pensano forse a loro in quella stessa ora nelle lontane steppe dell'Ungheria al dì del ritorno e che non verrà mai, mai più!
Quella folla, che si è già macchiata di sangue, non ha però tempo ne voglia di occuparsi di quei poveri morti. Tumultua, grida, schiamazza, mentre la Deputazione è in conferenza coll'O'Donnell.
Era le mille voci che riempiono il cortile, le scale, la via, si ode una voce più alta, che per un momento fa tacere le altre e ad esse si sovrappone: L'Arcivescovo, l'Arcivescovo! Largo all'Arcivescovo!
Era il Romilli, che l'anno prima, l'8 di settembre, aveva fatto il suo solenne ingresso in Milano e che succeduto al Gaisruck tedesco, era divenuto subito popolare, perchè italiano e buon uomo.
Il Romilli più che camminare era portato anch'egli su per lo scalone, mal difeso da alcuni sacerdoti, che lo difendevano dal troppo caldo entusiasmo dei suoi concittadini. Salutava a destra e a sinistra, sorrideva, ma era agitatissimo. Guardava con certo terrore una coccarda tricolore, che gli avevano appiccicata sulla veste talare.
Si conferiva intanto nel gabinetto del Governatore, e la folla febbricitante di impazienza alzava sempre più le note del suo patriottico entusiasmo. Ma ecco che si apre la porta del gabinetto e ne esce il conte Carlo Taverna, che dà la notizia delle prime concessioni.
Signori, il Governo ha fatto le concessioni…
E non si ode il seguito… Concessioni, sta bene, ma di che, ma di cosa? La impazienza cresce, diventa angosciosa e le grida crescendo impediscono di udire.
Un tale grida: Scriviamo la concessione e gettiamo il foglio nel cortile. Una penna, dei calamai, dei fogli!
Si trova dopo confuse ricerche un calamaio, ma senza penne e senza carta. La carta la troverò io, grida un impiegato e porta dei bollettini di leggi e circolari, che hanno sempre un foglio in bianco.
Si strappano le pagine bianche e senza penna vi si scrive con bastoncini, con matite; perfino colle dita tuffate nel calamaio.
E i fogli volan per l'aria e scendono dalle finestre nelle vie, dal corridoio e dalla scala nel cortile.
Si legge male ciò che peggio era scritto, ma tutti possono leggere però queste parole: Il Governo ha conceduto. E allora si ode da per tutto: Evviva la concessione, evviva il Municipio!
Le concessioni strappate a forza erano: Guardia nazionale – Libertà di stampa – Garanzia personale.
Miste agli evviva si udivano però altre grida: Vogliamo armi, vogliamo armi! Ma un altro grido più forte, più angoscioso vien su dalla piazza: I Tedeschi, i Tedeschi!
Il pànico invade la folla in gran parte inerme, e fugge, mentre la Deputazione esce dal Palazzo, portando seco come ostaggio o come prigioniero il vicepresidente O'Donnell, che messo nel palazzo del conte Carlo Taverna vi rimaneva tranquillo e indisturbato per tutte le cinque giornate.
Intanto, però, in varii punti della città eran corse schioppettate fra il popolo e la truppa, e in più luoghi si erano inalzate delle barricate.
I soldati avevan saputo dell'uccisione delle due sentinelle del Palazzo di Monforte e si vendicavano, dando la caccia ai cittadini. E questi tiravano sui soldati. Non si trattava più di Milanesi oppressi e di Austriaci oppressori. Era la vampa atavica dell'uomo selvaggio, che morsicato morde, che ferito ferisce. Due giovani fra gli altri, di condizione civile, inseguiti, fuggirono in una bottega di cartoleria, che era aperta, avendo la folla strappate le porte per farne una barricata. E i soldati dietro. I fuggenti corrono su per le scale, finchè trovano il tetto, e i soldati sempre dietro. Non si seppe mai, se scivolando dal pendio del tetto cadessero nella via o prima fossero stati uccisi e poi precipitati dall'alto. Il fatto si è, che i loro cadaveri, sfigurati, rimasero dov'eran caduti per più giorni, non riconosciuti, nè raccolti dalle turbe ebbre di lotta e che avevan altro da fare che di pensare a due poveri morti. Chi conta i cadaveri nell'ora della battaglia?
E la battaglia era ormai impegnata, nè consiglio di prudenti, nè pietà di filantropi poteva ormai arrestarla.
Nè solo i combattenti cadevano, ma anche i fuggiaschi, che per caso o per necessità si trovavano nelle vie. Il bravo Torelli, che armato di una sciabola e di due grossi pistoloni andava verso il Broletto, trova sul marciapiedi presso la via della Spiga un povero vecchio ucciso da una palla nel mezzo della fronte, e la pioggia lavava quella ferita e portava lungo il leggier pendio della strada un sottile rigagnolo di sangue. Il Torelli aiutato da alcuni cittadini portò quel povero vecchio sotto l'atrio d'una casa.
Ecco il principio della rivoluzione, ecco la prima delle cinque gloriose giornate, che scrissero una pagina d'eroismo nella storia d'Italia e diedero una lezione ai despoti; nè starò a descrivervi tutte le scaramuccie, tutti i particolari della lotta, che non aveva un solo generale, nè un solo piano di tattica, ma che si combatteva in tanti centri, quanti erano rappresentati dalle caserme, dal Comando di piazza, dalla polizia e con diversa fortuna, secondo i luoghi e gli uomini che combattevano.
Non accennerò che a qualche episodio. Mettendoli l'uno accanto all'altro, avrete il quadro della sommossa.
Corre la voce, che davanti al Gran Comando Generale posto in via di Brera, i soldati fraternizzano col popolo. Si spiega la cosa, aggiungendo che quei soldati son tutti ungheresi e italiani. Se un cittadino di alta autorità e di grande energia si presentasse al Comando, potrebbe intimare la resa a quel battaglione.
Ma c'è chi soggiunge:
È vero: son tutti italiani e ungheresi, non chiederanno di meglio che di arrendersi; ma gli ufficiali son tutti tedeschi e conviene che per trattare con essi ci voglia chi sappia il tedesco.
L'uomo coraggioso si trova, anzi se ne trovano due, perchè al Torelli si aggiunse l'Anfossi, e entrambi, senza misurare il pericolo della loro impresa, si avviano al Comando.
Era tutto un quadrato di soldati, che fitti fitti e armati stavano davanti alla porta del palazzo. Il Torelli, traendo un fazzoletto bianco e sollevandolo in alto, gridò con tutto l'entusiasmo: Eljen Madjar! Risposero in molti Eljen! Eljen! e parecchi strinsero la mano al nostro Torelli.
Egli ravvisò un maggiore, che ravvolto in un gran mantello impermeabile a causa della pioggia, stava dinanzi alla porta chiusa del Comando e tentò di persuaderlo ad arrendersi. Ormai il popolo era padrone della città, era bene evitare un inutile spargimento di sangue… si arrendesse.
Il maggiore lo ascoltò con tutta la calma, senza dar segno di impazienza o di sdegno, e si accontentò di rispondere: No, non lo posso, non fate ostilità voi, e non ne faremo noi.
L'Anfossi, che non sapeva il tedesco, non poteva capire il dialogo, vedendo che i soldati li avevano circondati, disse piano al Torelli: «Caro mio, andiamocene, ci potrebbero portare in castello.»
Il Torelli ritornò all'assalto con parole più calde, ma il maggiore con più energia di prima disse di no, e i due temerarii cittadini ritornarono donde erano venuti.
Se la resa non riusciva colle buone, doveva riuscire colle brusche e a suon di fucilate.
Il 19 l'Anfossi con una schiera di valorosi compagni prendeva gli Archi di Porta Nuova, respingendo gli Austriaci e prendendo un'ottima linea di difesa.
Il giorno dopo, i Tedeschi abbandonavano la Polizia e il Duomo, che avevano occupato, come un osservatorio e come un ottimo punto di difesa, dacchè i Tirolesi, ottimi fra tutti i tiratori del mondo, di lassù uccidevano senza sbagliare un colpo. Aggiungete che accanto al Duomo sta il Palazzo Reale e si innalza il colosso dell'Arcivescovado.
Il Torelli, appena seppe che il Duomo era abbandonato, chiese ad una signora una bandiera tricolore, e con pochi compagni la portò su quel gigante di marmo, e l'innalzò tra gli applausi del popolo, che dal basso vedeva il vessillo nazionale sventolare per la prima volta sul caro, sull'adorato Dom de Milan.
Questa la poesia della rivoluzione! Accanto alla poesia, però, nello stesso tempo la prosa robusta e vigorosa dei fatti. È in quello stesso giorno che la Congregazione Municipale si trasformava in Governo provvisorio, con patriottico pudore però rinunziando alla parola audace e forse ancora troppo superba, e dicendo solo in un suo proclama «
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