Читать бесплатно книгу «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1» Эдварда Гиббона полностью онлайн — MyBook

PREFAZIONE DELL'AUTORE

Non è mio intendimento di trattenere il lettore con estendermi sulla varietà, o sulla importanza del soggetto, che ho preso a trattare; il merito della scelta non servirebbe che a rendere più manifesta e meno scusabile la debolezza dell'esecuzione. Ma nondimeno, parendomi necessario di far conoscere al Pubblico l'Opera che gli presento, credo conveniente l'esporre con brevità la natura e i confini del mio disegno generale.

La memorabile serie di rivoluzioni, che nel corso di quasi tredici secoli indebolirono a poco a poco, e finalmente distrussero il saldo edifizio dell'umana grandezza, può giustamente dividersi nei tre seguenti periodi.

I. Il primo di questi, principiando dal secolo di Traiano e degli Antonini, quando la Monarchia Romana, già arrivata al sommo della forza e della maturità, cominciò a pendere verso la sua rovina, si estende fino alla distruzione dell'Impero d'Occidente per opera dei Barbari della Germania e dalla Scizia, rozzi antenati delle più civili nazioni dell'Europa moderna. Questa straordinaria rivoluzione che soggettò Roma al dominio di un Gotico conquistatore, si compì verso il principio del sesto secolo.

II. Il secondo periodo della decadenza e rovina di Roma può dirsi cominciare dal Regno di Giustiniano, le leggi e le vittorie del quale rendettero all'Impero d'Oriente uno splendor passeggiero: questo periodo comprende l'invasione dei Longobardi nell'Italia; la conquista delle province Asiatiche e Affricane fatta dagli Arabi, i quali avevano abbracciato la religione di Maometto; la ribellione del Popolo romano contro i deboli Principi di Costantinopoli; e l'elevazione di Carlo Magno, che nell'anno 800 stabilì il secondo Impero d'Occidente, o sia l'Impero Germanico.

III. L'ultimo ed il più lungo di questi periodi è composto quasi di sette secoli e mezzo, dal risorgimento dell'Impero Occidentale fino alla presa di Costantinopoli fatta dai Turchi, ed all'estinzione di una degenerata stirpe di Principi, i quali continuarono ad assumere i titoli di Cesare e di Augusto, anche di poi che i loro dominj furono ristretti dentro i limiti di una sola città, nella quale non restava da gran tempo vestigio alcuno della lingua e dei costumi degli antichi Romani. Dovendo riferire gli avvenimenti di questo periodo, non si può a meno di non internarsi nella Storia generale delle Crociate, in quanto esse contribuirono alla rovina dell'Impero greco. Le molte ricerche che ho dovuto fare sullo stato di Roma, durante l'oscurità e la confusione dei secoli di mezzo, mi fecero differire più che non l'avrei creduto il compimento del mio lavoro, che da principio non erami sembrato tanto lungo come lo sperimentai in appresso.

Ch'io abbia eseguito il vasto disegno immaginato, non ardisco lusingarmene: n'ebbi però l'intenzione, ed il Pubblico imparziale potrà giudicarne leggendo la mia Opera.

AVVERTIMENTO RELATIVO ALLE NOTE

La diligenza e l'esattezza sono i soli meriti che uno Storico possa dire suoi propri, se pur vi è qualche merito reale nell'esecuzione di un indispensabile dovere. Posso pertanto dir con ragione, che ho diligentemente esaminati tutti i documenti originali, che potevano illustrare il soggetto da me preso a trattare. Per dare un'idea al Leggitore del metodo da me tenuto nel lavoro delle annotazioni, mi ristringerò ad una sola osservazione.

I Biografi che a' tempi di Diocleziano e di Costantino composero o piuttosto compilarono le vite degli Imperatori, da Adriano fino ai figli di Caro, vengono ordinariamente citati sotto i nomi di Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Elio Lampridio, Vulcazio Gallicano, Trebellio Pollione, e Flavio Vopisco. Ma vi è tanta confusione nei titoli dei MSS., e tante dispute sono insorte tra i critici (vedi Fabricio Biblioth. Lat. l. III, c. 6) intorno al numero, ai nomi ed alle opere loro, che io gli ho citati perloppiù senza distinzione alcuna, sotto il generico e ben noto titolo della Storia Augusta.

CAPITOLO I

Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini.

Dal 98

al 180

Nel secondo secolo dell'Era cristiana, l'Impero di Roma comprendeva la parte più bella della Terra, e la porzione più civile del genere umano. Il valore, la disciplina, e l'antica rinomanza difendevano le frontiere di quella vasta monarchia. La gentile, ma potente influenza delle leggi e dei costumi aveva a poco a poco assodata l'unione delle province, i cui pacifici abitatori godevano ed abusavano dei vantaggi che nascono dalle ricchezze e dal lusso. Si conservava ancora, con decente rispetto, l'immagine di una libera costituzione; e l'autorità sovrana apparentemente risedeva nel Senato romano, il quale affidava agl'Imperatori tutta la potenza esecutiva del Governo. Nel felice corso di più d'ottant'anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini. In questo e nei due seguenti capitoli, descriveremo il prospero stato del loro Impero, ed esporremo le più importanti circostanze della sua decadenza e rovina, dopo la morte di Marco Antonino; rivoluzione che sarà rammentata mai sempre, e della quale le nazioni della terra tuttor si risentono.

Le principali conquiste dei Romani furon terminate al tempo della Repubblica, e gl'Imperatori quasi tutti si contentarono di conservare quegli Stati, che la politica del Senato, l'attiva emulazione dei Consoli, ed il marziale entusiasmo del popolo avevano acquistati. I sette primi secoli furono una rapida successione di trionfi; ma era riservato ad Augusto di abbandonare l'ambizioso disegno di soggiogare tutta la Terra, e introdurre nei pubblici Consigli uno spirito di moderazione. Egli, e per temperamento e per le circostanze, inclinato alla pace, facilmente conobbe, che Roma in quello stato di elevazione avea molto più da temer che da sperare per l'evento dell'armi; e che nella continuazione di guerre remote, l'impresa diveniva ogni dì più difficile, più incerto l'esito, il possesso più precario e men vantaggioso. L'esperienza di Augusto aggiunse peso a queste savie riflessioni, ed efficacemente il convinse, che col prudente vigor dei consigli, agevole gli riuscirebbe ottenere ogni concessione cui la salvezza o la dignità di Roma potesse richiedere dai più formidabili Barbari. Invece di espor se e le sue legioni ai dardi dei Parti, egli ottenne con un trattato onorifico la restituzione delle insegne e dei prigionieri stati già presi nella disfatta di Crasso16.

Nel principio del suo regno tentarono i suoi Generali di soggiogare l'Etiopia e l'Arabia Felice. S'innoltrarono essi per mille miglia verso la parte meridionale del Tropico; ma l'eccessivo calore del clima ben tosto respinse questi invasori, e difese i pacifici abitatori di quelle separate contrade17. Le regioni settentrionali dell'Europa meritavano appena la spesa e la fatica di conquistarle. Le foreste e le paludi della Germania erano popolate da una moltitudine di uomini barbari e coraggiosi, che disprezzavano una vita, a cui la libertà non fosse compagna; e sebbene nel primo assalto parvero cedere al peso della potenza romana, ben presto con un atto segnalato di disperazione riacquistarono la loro indipendenza, e rammentarono ad Augusto le vicende della fortuna18.

Dopo la morte di questo Imperatore fu il suo testamento pubblicamente letto in Senato. Lasciava egli a' suoi successori, come legato importante, il consiglio di contenere l'Impero in quei limiti, che la natura medesima pareva aver posti per sue stabili barriere e confini. A ponente l'Oceano Atlantico; a tramontana il Reno ed il Danubio; l'Eufrate a levante, e verso il mezzogiorno gli arenosi deserti dell'Arabia e dell'Affrica19.

Fu gran fortuna pel riposo del genere umano, che i vizj ed il timore obbligassero i primi successori di Augusto ad apprendersi al moderato sistema, che la prudenza di lui aveva raccomandato. Occupati nel correr dietro al piacere, o nell'esercizio della tirannide, i primi Cesari raramente si mostravano agli eserciti od alle province; nè erano disposti a soffrire, che la condotta ed il valore dei loro comandanti usurpassero i trionfi, trascurati dalla loro indolenza. La gloria militare di un suddito era riguardata come una insolente usurpazione della prerogativa imperiale; e divenne un dovere egualmente che un interesse di ogni Generale romano il difendere le frontiere affidate alla sua cura, senza aspirare a conquiste, che sarebber potute divenire non meno fatali a lui stesso, che ai Barbari da lui soggiogati20.

L'unico ingrandimento che ricevesse l'Impero romano, nel primo secolo dell'Era cristiana, fu la provincia della Britannia. In questa sola circostanza i successori di Cesare e di Augusto crederono di dover seguire piuttosto l'esempio del primo, che il precetto del secondo. La sua situazione, vicina alle coste della Gallia, pareva invitar le lor armi; la lusinghiera, sebbene incerta speranza della pesca delle perle vi chiamava la loro avarizia21; e poichè la Britannia era considerata come un Mondo distinto ed isolato, la sua conquista faceva appena eccezione al general sistema dei confini nel continente. Dopo una guerra di circa 40 anni22 intrapresa dal più stupido, continuata dal più dissoluto, e terminata dal più timido di tutti gl'Imperatori, la maggior parte dell'isola soggiacque al giogo romano23. Le diverse tribù dei Britanni avevan valore senza condotta, ed amore di libertà senza spirito di unione. Prendevano le armi con una ferocia selvaggia, le posavano, o se le rivolgevano gli uni contro gli altri con una fiera incostanza; e mentre combattevan divisi, venivano successivamente domati. Nè la fortezza di Caractaco, nè la disperazione di Boadicea, nè il fanatismo dei Druidi potè preservare la lor patria dalla schiavitù, o resistere ai saldi progressi dei Generali cesarei, che sostenevano la gloria della nazione, mentre il trono era disonorato dai più vili e più viziosi degli uomini. Nel tempo stesso in cui Domiziano, confinato nel suo palazzo, sentiva i terrori ch'egli inspirava, le sue legioni, comandate dal virtuoso Agricola, disfacevano le forze riunite dei Caledonj a piè delle colline Grampiane, ed i suoi vascelli, arrischiatisi a scoprire una navigazione sconosciuta e perigliosa, spiegavano le insegne romane intorno ad ogni parte dell'isola. La conquista della Britannia già si riguardava come terminata; ed Agricola aveva disegno di compirne ed assicurarne il successo con la facile riduzion dell'Irlanda, per la quale credea sufficiente una legione con poche truppe ausiliari24. Il possesso di questa isola occidentale potea divenir vantaggioso; ed i Britanni avrebbero portate le loro catene con minor ripugnanza, se l'esempio e l'aspetto della libertà fosse loro stato per ogni parte tolto dagli occhi.

Ma il merito preminente di Agricola cagionò ben presto il suo richiamo dal governo della Britannia, e sconcertò per sempre quel vasto, ma ragionato piano di conquista. Avanti la sua partenza, il prudente Generale aveva provveduto alla sicurezza non men che al possesso. Osservando che l'isola è quasi divisa in due parti diseguali dagli opposti golfi, chiamati adesso le Sirti di Scozia, avea tirato, a traverso l'angusto intervallo di circa 40 miglia, una linea di posti militari, la qual fu poi fortificata nel regno di Antonino Pio con un terrapieno alzato su fondamenti di pietra25. Questa muraglia di Antonino, poco al di là delle moderne città di Edimburgo e Glascovia, fu stabilita come il confine della provincia romana. I nativi Caledonj, nell'estremità settentrionale dell'isola, conservarono la loro selvaggia indipendenza, della quale andarono debitori alla loro povertà non meno che al loro valore. Furono spesso e respinte e punite le loro incursioni, ma il lor paese non fu mai soggiogato26. I padroni delle contrade più belle e più ricche del globo, con disprezzo si allontanavano dai cupi monti, dove sempre regnano le tempeste del verno, dai laghi coperti di azzurra nebbia, e dalle fredde e solitarie macchie, dove i cervi della foresta erano inseguiti da una truppa di nudi Selvaggi27.

Questo era lo stato delle frontiere romane, e tali eran le massime della politica imperiale, dalla morte di Augusto fino all'esaltazione di Traiano. Questo Principe virtuoso ed attivo, all'educazione di un soldato univa i talenti di un Generale28. Il pacifico sistema de' suoi predecessori fu interrotto da scene di guerra e di conquista; e le legioni, dopo un lungo intervallo, videro finalmente alla loro testa un Imperatore soldato. Le prime imprese di Traiano furono contro i Daci, popoli i più bellicosi tra quelli che abitavano di là dal Danubio, e che sotto il regno di Domiziano avevano impunemente insultato la maestà di Roma29. Alla forza ed alla ferocia propria dei Barbari, essi univano un disprezzo per la vita, originato in loro dalla ferma persuasione della immortalità e trasmigrazione delle anime30. Decebalo, lor Re, si mostrò rivale non indegno di Traiano; nè disperò mai della propria e della pubblica fortuna, finchè, per confessione ancora de' suoi nemici, non ebbe esauriti tutti i ripieghi del valore e della politica31. Questa memorabil guerra, interrotta da una brevissima tregua, durò cinque anni; e siccome l'Imperatore potè impiegarvi, senza riserva, le intere forze dello Stato, essa finì con la perfetta sommissione dei Barbari32. La nuova provincia della Dacia, che formava una seconda eccezione al precetto di Augusto, aveva quasi mille trecento miglia di circonferenza. I suoi naturali confini erano il Niester, il Teyso ossia Tibisco, il Danubio inferiore, e il mare Eusino. Si vedono ancora i vestigi di una via militare dalle rive del Danubio fino alle vicinanze di Bender, piazza famosa nella storia moderna, ed ora frontiera dell'Impero turco e del russo33.

Traiano era avido di gloria, e finchè gli uomini saranno più liberali di applausi verso chi li distrugge che verso chi li benefica, la sete della gloria militare sarà sempre il vizio degli animi più elevati. Le lodi di Alessandro, trasmesse da una successione di poeti e di storici, avevano accesa nello spirito di Traiano una pericolosa emulazione. Simile ad Alessandro, l'Imperatore romano intraprese una spedizione contro le nazioni dell'Oriente, ma sospirando si lamentava che la sua età avanzata non gli lasciasse speranza di eguagliare la fama del figliuol di Filippo34. I successi però di Traiano furon rapidi ed insigni, benchè passeggieri. I Parti, già degenerati e divisi per le intestine discordie, fuggirono dinanzi alle sue armi. Egli trionfante scese pel fiume Tigri, dalle montagne della Armenia fino al golfo Persico, e godè l'onore di essere il primo, come ei fu l'ultimo, dei Generali romani che navigasse in quel mare lontano. Le sue flotte devastarono le coste dell'Arabia; e Traiano si lusingò, ma indarno, di toccare i confini dell'India35. Ogni giorno il Senato riceveva con istupore la notizia di nuovi nomi e di nuove nazioni, le quali riconoscevano la sua autorità. Seppe che i Re del Bosforo, di Colco, dell'Iberia, dell'Albania, di Osroene e sino il Monarca istesso dei Parti avevano accettato i loro diademi dalle mani dell'Imperatore; che le indipendenti tribù delle montagne della Media e dei monti Carduchi avevano implorata la sua protezione, e che le doviziose regioni dell'Armenia, della Mesopotamia e dell'Assiria erano ridotte in province36. Ma la morte di Traiano oscurò in un momento un prospetto così luminoso; ed era giustamente da temersi, che tante lontane nazioni non iscuotessero il giogo insolito, quando non più le frenasse la mano possente che loro avealo imposto.

Era antica tradizione, che quando un Re di Roma fabbricò il Campidoglio, il Dio Termine (che presedeva ai confini, e secondo l'uso di quei secoli veniva rappresentato da una gran pietra) fosse il solo tra tutti gli Dei inferiori, che ricusasse di cedere il suo posto a Giove medesimo. Da questa ostinazione si dedusse una favorevol conseguenza, interpretata dagli Auguri come sicuro presagio, che i confini della potenza romana non si sarebber ristretti giammai37. Per molti secoli la predizione, come è solito, contribuì al suo adempimento38. Ma quel Dio Termine, che avea resistito alla maestà di Giove, cedè all'autorità di Adriano. La cessione di tutte le conquiste orientali di Traiano fu la prima determinazione del suo regno. Egli rendè ai Parti il diritto di eleggere un Sovrano indipendente, ritirò le guarnigioni romane dalle province dell'Armenia, della Mesopotamia e dell'Assiria, e secondo il precetto di Augusto, stabilì un'altra volta l'Eufrate per frontiera dell'Impero39. La critica, che processa le azioni pubbliche ed i motivi privati dei Principi, ha imputata all'invidia una condotta, che potrebbe attribuirsi alla prudenza ed alla moderazione di Adriano. Il carattere incostante di questo Imperatore, capace a vicenda e dei più bassi e dei più generosi sentimenti, può dare qualche colore al sospetto. Non poteva egli per altro mettere in luce più luminosa la superiorità del suo predecessore, se non se confessandosi in tal modo incapace di difendere quello che Traiano avea conquistato.

Lo spirito marziale ed ambizioso di Traiano faceva un contrasto molto singolare con la moderazione del suo successore; nè men notevole fu l'inquieta attività di Adriano, ove si paragoni al tranquillo riposo di Antonino Pio. La vita di Adriano fu quasi un viaggio continuo; e siccome possedeva i diversi talenti di soldato, di politico e di letterato, così contentava la sua curiosità, soddisfacendo al suo dovere. Non curando la differenza delle stagioni e dei climi, andava a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia, e sulle cocenti pianure dell'Egitto superiore; nè vi fu provincia dell'Impero che nel corso del regno di lui, non fosse onorata dalla presenza del suo Monarca40. Al contrario, Antonino Pio passò la sua vita tranquilla in seno all'Italia; e nel corso di ventitre anni che tenne la pubblica amministrazione, i più lunghi viaggi di questo Principe amabile non si estesero più in là che dal palazzo di Roma al suo ritiro nella villa Lanuvia41.

Non ostante questa differenza nella lor personale condotta, Adriano, e i due Antonini egualmente adottarono, e seguirono uniformemente il sistema generale di Augusto. Essi persisterono nel disegno di mantenere la dignità dell'Impero senza tentare di estenderne i confini. Con ogni onorevole espediente invitarono i Barbari alla loro amicizia, e procurarono di convincere il genere umano, che la romana potenza, superiore alla brama di conquistare, era soltanto animata dall'amore dell'ordine e della giustizia. Per il lungo giro di quarantatre anni un prospero successo coronò le loro virtuose fatiche; e se si eccettuino poche leggiere ostilità, che servirono ad esercitare le legioni delle frontiere, i regni di Adriano e di Antonino Pio presentano il bel prospetto di una pace universale42. Il nome romano era venerato dalle più remote nazioni della Terra. I Barbari più feroci spesso eleggevano l'Imperatore per arbitro delle loro dissensioni; ed uno storico contemporaneo, racconta di aver veduto imbasciatori venuti a richiedere l'onore, che lor fu ricusato, di esser ammessi nel numero dei sudditi43.

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