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XII

Così Valeria vide esaudito il suo voto. Sua figlia era un genio. E un genio riconosciuto e glorificato come solo i paesi latini glorificano e riconoscono i proprii grandi. Nancy passò dal soave crepuscolo della puerizia all'abbagliante clamore della celebrità. Gli inesperti suoi passi tremarono sulle vette. E il giovane capo le fu cinto di splendori. Fu intervistata e citata, imitata e tradotta, invidiata e adorata. Aveva più innamorati che una prima ballerina, e più nemici che un primo ministro.

Al ben ordinato appartamento in via Durini, non veniva più la gente mitemente frivola che alla zia Carlotta piaceva. No. La casa era sempre piena di poeti. Poeti che restavano a pranzo, che suonavano il pianoforte, che parlavano sempre di sè stessi ad altissima voce e che trattavano lo zio Giacomo come se fosse il portinaio.

Sedevano intorno a Nancy e le leggevano i loro versi. E le critiche dei loro versi. E le loro risposte alle critiche dei loro versi. V'erano dei tempestosi poeti con barbe in punta; dei fortunati poeti coi baffi all'insù; dei cupi poeti non stampati; e dei poeti negligenti che si lavavano poco.

Vi fu anche un poeta che portò via un soprabito dall'anticamera. La zia Carlotta disse che era il Probabilista, quello dai capelli lunghi, autore della « Melica Cantata Essenziale ».

Ma Adele sosteneva che era il Futurista, cantore del « Verbo della Magnifica Sterilità ».

In breve giunse una lettera da Roma, collo stemma della Real Casa.

La dama d'onore di Sua Maestà la Regina era incaricata di invitare Giovanna Desiderata a leggere i suoi poemi al Quirinale, alle quattro e mezzo del venerdì seguente.

Subito la casa fu sossopra; dapertutto e ad ogni istante, mentre si facevano i bauli e perfino durante i pasti, la zia Carlotta, Adele, Valeria e Nancy si esercitavano a far delle profonde riverenze e dei baciamani – chiedendosi esterrefatte se si doveva dire « Vostra Maestà » ogni volta che si parlava, o solo casualmente, di quando in quando.

Partirono subito per Roma. Ordinarono per Nancy una veste sontuosa e un grande cappello piumato. E, giunto il fausto giorno, Nancy, con una veletta bianca calata per la prima volta sul viso infantile, in guanti troppo stretti, e tenendo il volumetto de' suoi versi serrato al cuore trepidante, si recò al Quirinale, accompagnata da Carlotta, Adele e Valeria, tutte in grandi boa di piume bianche.

Una dama d'onore, dalla veste semplice e dalla voce dolce, le ricevette; e, sorridendo un poco, spiegò che soltanto Nancy era attesa e poteva essere ricevuta. Disse poi a Nancy di alzare il velo e di togliersi il guanto della mano destra. Carlotta, Adele e Valeria abbracciarono Nancy come se partisse per un lungo viaggio, e le fecero il segno della croce sulla fronte, e molte raccomandazioni. Quindi la dama di Corte la condusse per una fila di sale gialle, di sale azzurre, di sale rosse – fino alla sala bianca ed oro dove la Regina l'avrebbe ricevuta.

Quasi subito la porta si aprì e la Sovrana entrò. Aveva la veste ancora più semplice e la voce ancora più dolce della sua dama d'onore, e mosse sorridendo incontro alla figurina, timida, sotto l'immenso cappello piumato. Allora Nancy dimenticò la riverenza imparata e il saluto tante volte ripetuto. Fissando gli occhi timorosi e infantili sulla bionda e clemente visione, con un piccolo singhiozzo, afferrò e strinse al cuore la mano bianca che si porgeva a lei.

La Regina d'un tratto si chinò verso di lei e la baciò.

… Era tardi, quasi buio, quando Nancy, pallidetta e trasognata, tornò dove l'aspettavano sua madre, sua zia e sua cugina. Queste terminavano appunto un nervoso rinfresco di dolci e vini, con un gentiluomo in divisa in piedi presso a loro, e due lacchè incipriati che le servivano. Tutte e tre si alzarono quando Nancy apparve, mettendosi affrettatamente i boa; e se ne andarono, scortate e riverite dal gentiluomo in uniforme, che – disse la zia Carlotta – « era probabilmente il Duca d'Aosta ». Un altro lacchè incipriato le condusse sino alla carrozza reale, che aspettava per ricondurle all'albergo.

Durante il tragitto Nancy parlò poco, e la zia Carlotta e Adele la interrogarono invano. Seduta nell'ombra della carrozza, con gli occhi chiusi, teneva stretta la mano di sua madre e non sapeva dire alla zia Carlotta neppure che cosa le avessero offerto da mangiare! « Del thè? » Sì, del thè. « E delle paste? » Sì, delle paste. « Ma che genere di paste? e che cosa d'altro? ».

Nancy non si ricordava.

« E come era vestita la Regina? Di bianco? » No, non di bianco. « Era vestita di seta? O di pizzo nero? » Nancy non lo sapeva. Non aveva visto.

« E che gioielli aveva? » Nancy non se ne poteva ricordare. « E l'aveva poi chiamata « Maestà » o « Signora »? » Nancy non sapeva. Le pareva di non aver detto nè l'uno nè l'altro.

Allora sua madre le chiese timidamente:

– E le tue poesie, le sono piaciute?

E Nancy strinse forte la mano di sua madre e disse:

– Sì.

Carlotta e Adele rimasero convinte che la visita di Nancy era stata un fiasco. Certo aveva fatto delle gaffes!… Si era dimenticata di fare riverenze e non aveva mai detto « Maestà ». Tuttavia all'albergo parlarono molto e con tutti del pomeriggio passato al Quirinale; e finsero di non essere sorprese quando all'indomani il portiere portò a ciascuna di loro una busta, con dentro il ritratto firmato della Regina, e per Nancy uno scrigno con monogramma e corona contenente una spilla di smalto azzurro con le iniziali reali in brillanti.

Nancy comperò un diario – un piccolo libro celeste e oro – e scrisse sulla prima pagina la data e un nome. Il nome di un fiore – il nome della Regina.

Tornarono a Milano come in un sogno. Una folla di amici le aspettava alla stazione, e, primo fra loro, lo zio Giacomo, raggiante, con al fianco il Figliol prodigo, Nino, che da otto anni non si era fatto vivo a Milano. Alla sua vista Adele si fece rossa come una brage e Valeria bianca come un lino. E Nino ben se n'accorse; e sorrise, e si arricciò i baffi; e nell'aiutarle a scendere dal vagone, le baciò tutte e due, forte su ambo le guancie. Nancy non si ricordava affatto di lui. Lo guardò con occhi gravi mentre egli le descriveva un certo grembiulino rosa che ella portava da piccina in Inghilterra, e cercava di farle ricordare un teatrino di marionette, di cui a quell'epoca una Fräulein Meyer o Müller era direttrice di scena. Le chiese anche conto di una fossetta, come quella di sua mamma, che da bambina possedeva nella guancia sinistra – e Nancy rise, e subito la fossetta riapparve, incavandosi come una piccola coppa rosea nella tonda guancia giovanile. Valeria sorrideva colle lacrime agli occhi, e Nino, ciò vedendo, la baciò. Poi si permise di baciare anche Nancy. E infine baciò anche Adele che pareva aspettarselo. Allora lo zio Giacomo, molto impazientito, li fece correre fuori dall'affollata stazione, e li spinse nelle due vetture che aspettavano. Nino, all'ultimo momento, salì nella carrozza con Valeria, Nancy e la zia Carlotta, dove si stava pigiati e stretti.

Durante il tragitto egli non s'informò nè di Roma nè del Quirinale, e neppure parlò della propria lunga e misteriosa assenza. Citò dei versi di Baudelaire e di Mallarmé, senza nesso nè coerenza, ma con voce commossa e vibrante che faceva senso.

– I tuoi versi, cuginetta, – disse a Nancy, – non li cito. Sono sacrosanti. – E aggiunse piano: – Le mie labbra sono indegne.

Poi, distrattamente, prese a recitare Richepin:

 
Voici mon sang et ma chair,
Bois et mange!
 

E lo disse, guardando fisso Valeria che gli sedeva rimpetto. Ella si fece di nuovo pallidissima; ma gli occhi che la fissavano non vedevano lei.

Nino e lo zio Giacomo restarono a pranzo dalla zia Carlotta, e alla sera, due dei soliti poeti – un probabilista, ed uno di quelli poco lavati – vennero a ossequiare la poetessa.

Nancy sedeva ritta e sottile, in poltrona, e i poeti le urlavano d'intorno.

– Che cosa pensi di D'Annunzio? – le chiese Nino, profittando, per farsi udire, di un istante in cui i due poeti prendevano fiato.

– Non l'ho letto, – disse Nancy. – Non ho letto nulla, nè nessuno.

– Brava! così si fa, – gridò Muggi, l'illavato, annuendo colla testa scarmigliata. Non legga nulla e conservi la propria individualità!

– Legga tutto, legga tutto, e coltivi la forma, – gridò il probabilista Raffaelli.

Durante la discussione che seguì, le voci dei due poeti formarono un muro di strepito intorno a Nino e a Nancy, che li isolava permettendo loro di discorrere insieme.

– Quanti anni hai? – chiese Nino, guardandole la fronte blanda su cui le sopracciglia si stendevano come ali tranquille sopra gli occhi ridenti.

– Ho sedici anni, – disse Nancy, e la fossetta s'incavò.

Ma Nino non sorrise.

– Sedici anni! – mormorò.

E perchè i suoi occhi erano avvezzi alle tristi linee di un volto appassito, alla tragica amarezza di una bocca stanca, il suo cuore cadde vinto e conquiso ai piedi della dolce e calma giovinezza di Nancy. Era inevitabile.

– Sedici anni! – ripetè, guardandola con grande meraviglia. – Ma chi più al mondo ha sedici anni? – E la sua anima si prosternò, non davanti all'ispirata autrice dei poemi che tutt'Italia adorava, ma davanti alla bambina di cui gli occhi erano così limpidi sotto al volo tranquillo delle sopracciglia.

E fu la fredda manina della vergine, non il polso del poeta, che liberò il suo cuore dalla stretta di quelle altre mani di donna – oh, le bianche e ben ricordate mani! – dove le vene azzurre e un po' turgide segnavano il corso più lento del sangue: quelle tristi vene azzurre che suscitavano la sua pietà, e strangolavano il suo desiderio.

– Posso chiamarti col tuo vero nome? – domandò.

Nancy rise.

– Chiamami come vuoi.

– « Desiderata! », – diss'egli lentamente, e il colore abbandonò il suo viso mentre profferiva quel nome.

Quella sera Nancy scrisse sulla seconda pagina del suo diario una data e un nome. Poi li cancellò. E la Regina rimase sola nel librino celeste e oro.

Dalla visita al Quirinale in poi, ogni mattina alle otto, il cioccolatte e le lettere di Nancy le venivano portate da Adele stessa, che considerava un ufficio d'onore il poter servire la piccola Saffo d'Italia.

Entrava piano, in pantofole e vestaglia, colla lunga treccia nera pendente, e poneva il vassoio accanto al letto di Nancy; poi apriva le imposte e veniva a sedere presso la cuginetta. Mentre Nancy, come una principessina indolente, sorbiva col dito mignolo in aria, il suo cioccolatte, Adele apriva la corrispondenza. Leggeva ad alta voce anzitutto i ritagli di giornale che parlavano di Nancy; poi le domande di autografi, che venivano accuratamente messe da parte. Di queste s'incaricava Adele, che, secondo lei, scriveva l'autografo di Nancy meglio di Nancy stessa.

– Trovo che assomiglia di più alla tua firma quando la scrivo io, che quando la scrivi tu, – diceva Adele.

Indi le poesie e le lettere d'amore venivano lette e commentate con squillanti risa; e infine le lettere di affari si mettevano via e nessuno le leggeva.

Era tanta la gente che veniva a parlare a Nancy di ciò che essa aveva scritto, che non le restava più il tempo di scrivere cose nuove.

Ma la sua alacre fantasia era stimolata da tutti i modernisti e simbolisti, i futuristi ed ultraisti che le recitavano le loro opere. E nelle lunghe sere sotto il chiarore della lampada famigliare, mentre la zia Carlotta e lo zio Giacomo giocavano a briscola, Nino, appoggiati i gomiti alla tavola, leggeva le « Rime Nuove » di Carducci alle tre donne ascoltanti – Valeria, Adele e Nancy – che sedute nelle grandi poltrone, con le palpebre abbassate e le mani in grembo, parevano un trittico delle Stagioni d'Amore.

Valeria sedeva sempre un po' in disparte, nell'ombra; e se qualcuno le parlava, essa rispondeva piano, con breve dolcezza, e col sorriso spento. Le sue fossette si erano nascoste in due piccole linee che le solcavano le guancie. Valeria non era più Valeria. Era la madre di Nancy. Essa si era ritratta nell'ombra dove seggono le madri, dagli occhi miti che nessuno guarda, dalle bocche dolci che nessuno bacia, dalle mani bianche che benedicono e rinunziano.

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