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Emilio Rey

Non parte mai del tutto chi lascia dietro di sè buona memoria.

E. De Marchi.

Dinanzi al frequente succedersi delle disgrazie alpine, l’animo si turba, s’inquieta, e pare che il nostro entusiasmo si sfumi o vada a poco a poco raffreddandosi. Eppure così non è, e non sarà mai. L’alpinismo, per queste tristi calamità che vengono crudelmente a colpire i suoi fidi, non è condannato a morire; e continua imperturbato nella sua via tracciata, alla conquista di vette inesplorate, dove il nostro essere, dimentico della sua veste terrena, si rende migliore e mira ad altissimi ideali.

Le disgrazie alpine, non vanno considerate sui generis ed imputate a temerità, ma nella causa immediata che le generò: esse provano vieppiù la debolezza dell’uomo, per quanto gigante egli sia, dinanzi ai superiori eventi; e, benchè spargano un subitaneo terrore nelle nostre file, fortificano, ritemprano i nostri cuori: poichè non è che dopo aver passato per dure prove che l’anima si sente forte.

Se i più valenti campioni dell’alpinismo soccombono là dove già passarono non curanti più volte, non è perchè abbiano oltrepassato il limite consentito dalla prudenza e dal coraggio, ma così volle il destino, il fato supremo. Dobbiamo ammettere la massima alpinistica che in montagna una lieve, anche involontaria imprudenza può costare la vita ad un uomo: ma quale è l’essere perfetto che non abbia una momentanea debolezza?

Una tremenda prova la diede la guida Emilio Rey, onore e vanto delle guide italiane, compagno gentile e valoroso, zelante fino all’abnegazione, forte ed insuperabile; Lui, guidatore sicuro dei più eletti campioni dell’alpinismo europeo, che nè la furia delle tormente, nè l’aspra verticalità dei picchi bastarono a farlo indietreggiare, Lui perì vittima di una tenue imprevidenza.

Dinanzi ad una tomba di recente aperta non è lecito criticare, chè unanime sorge il plauso a questa vita bruscamente spezzata.

Emilio Rey dorme placidamente nell’umil campo dei morti del suo caro paese natìo e riposa dall’aspre tenzoni della sua vita: il suo nome è stampato a caratteri d’oro nei fasti dell’alpinismo; la sua fiera ed amabile figura resterà impressa perennemente in quanti lo conobbero.

Il mese di agosto è stato terribilmente nefasto per la stazione alpina di Courmayeur. In questo mese, che è il più propizio per le grandi ascensioni, perivano nel 1890, sugli alti ghiacci del Monte Bianco, due guide provette e di fama, assieme a un giovane e baldo alpinista che iniziava brillantemente la sua carriera. Quattro anni dopo, un alpinista temprato ai più ardui cimenti rimase vittima della subitanea ira di quel colosso, mentre veniva di calcare la cervice di uno dei suoi più temuti satelliti.

Le guide di Courmayeur, che da più di mezzo secolo riportano vittorie su quell’eccelsa catena, erano sempre state risparmiate nelle infauste vicende che vi si svolsero; ma nell’anno decorso venne pur troppo il loro turno. In men di una settimana ci rapiva un onesto padre di famiglia che lasciò due orfani in tenera età, ed un giovane che lasciò la sposa diletta nell’inconsolabile solitudine; e quindi, affinchè il colpo si ribadisse più tremendo nei nostri cuori, ci toglieva una persona che non solo ci era cara, ma formava il nostro vanto, una delle nostre maggiori glorie.

Del Rey conosciamo purtroppo i particolari della sua tragica morte; degli altri due, Savoye Michele e Bron Lorenzo, non basteranno le supposizioni a colpirli di biasimo; l’animo ripugna a pensare che non abbiano compiuto i doveri loro incombenti: gli onori resi ai loro corpi giustifichino la loro condotta. Essi sono morti, ma non scomparsi dalla nostra mente; i martiri dell’alpinismo ci sono sacri.

«Il est des catastrophes si complêtes, si foudroyantes qu’on refuse d’y croire dans le premier moment.—On se dit:—Ce n’est pas possible!—et, malgré l’évidence, on doute.»

Tale accento di dubbio, di sorpresa e di profondo dolore, si leggeva in volto a tutte le persone in Courmayeur, verso il mezzogiorno del 25 agosto 1895, quando giungeva dal Colle del Gigante la guida francese apportatrice del triste annunzio della morte di Emilio. In men che non si dice, a tutti fu nota la disgrazia. Fu come un vento gelido di morte scendente dalla montagna ad imprimere su tutti gli animi lo sconforto; come per incanto scomparve quella gaia serenità che si vede dipinta sui volti delle persone in un giorno di festa. Gli occhi s’imperlavano di lagrime furtive, e lo sguardo, nel suo mutismo, lanciava una maledizione a quella montagna che ci rapiva una persona amata da tutti.

Mi par ancora di vedere la moglie del Rey, all’uscir di messa, apprendere, dal suo figlio maggiore, la tremenda sciagura che la colpiva. Povera donna! non volle credervi; ma interrogati, cogli occhi, gli astanti fu purtroppo conscia della verità di quanto le asserivano. Che terribile frecciata al cuore!

L’annunzio di tanta iattura lasciò la maggior parte di noi increduli. Ci pareva impossibile che un Rey fosse caduto e tanto più in un sito relativamente poco pericoloso. Ma a che pro’ illudersi?

Per quel giorno e per molti altri ancora, Emilio Rey divenne il tema di tutti i discorsi; però da tutte le bocche, non una parola di biasimo usciva al suo indirizzo, ma lodi ed ammirazioni.

Poichè Emilio Rey non è più, tramandiamo ai posteri la sua fiera e simpatica immagine, narriamo le gesta della sua vita gagliarda che mai venne meno al dovere del giusto e del prode. Che le generazioni avvenire sappiano chi fu e come fu Emilio Rey!

Il còmpito è arduo e spinoso, ma riconforta l’animo nel ripercorrere questo cammino pieno di vittorie, dove tra le foglie della quercia robusta, sono intrecciati i fiori gentili della cortesia ed i frutti di animo elevato e d’una coscienza candida, immacolata.

Emilio Rey nacque nel 1846 in quel di La Saxe, frazione di Courmayeur, in Valle d’Aosta. Poco o nulla di notevole v’è da dire sulla sua giovinezza, se non che ricevette un’educazione austera, che valse grandemente a formarne un uomo di carattere dai forti proponimenti e dai ponderati giudizii. L’istruzione gli fu pur troppo limitata: abbozzata meschinamente nella scuoletta del villaggio, fu compiuta in famiglia fino oltrepassata la puerizia. Ma se la mente fu lasciata in balìa di sè stessa, il cuore venne ornato di tutte quelle doti che, nella vita, valgono più di qualunque ornamento estetico, e bastano da sè sole per farsi apprezzare e rispettare.

Della sua poca coltura ebbe poi Emilio sempre a dolersene per tutta la vita, adducendo da fine osservatore l’aforisma: «L’instruction sert grandement à former les caractères et à développer les forces latentes du cœur et de l’esprit. Elle constitue, pour ainsi dire, la noblesse de l’ouvrier.»

Però il continuo contatto e la vita quasi intima che trasse con persone di vasto sapere lo dirozzarono non solo della scorza che conservava di montanaro, ma gli suscitarono un’ardente brama di sviluppare le facoltà intellettive per quanto gli permettevano e l’età matura e le occupazioni domestiche. In prova di quanto dico, sta il fatto che fin dal 1878, allorquando il suo nome si era già fatto una breccia nella fama, sentì la necessità di possedere, almeno superficialmente, l’idioma delle guide bernesi, colle quali aveva frequenti relazioni ed era amico e emulo. Si ridusse perciò a passare quell’inverno a Meiringen colla guida Zumberg, che da tempo conosceva. Più tardi, verso il 1887, teneva presso di sè, per tutta la stagione invernale, un certo Fischer, giovane dell’Oberland Bernese (perì nell’88 accompagnando i signori Donkin e W. Fox al Dichtau, nel Caucaso), onde vieppiù impratichirsi della lingua tedesca.

Emilio Rey parlava e scriveva correttamente il francese, conosceva l’italiano e il tedesco ed interpretava anche la lingua di Byron. Tuttavia, se la sua parola era calda, forbita, schiettamente entusiastica, e quasi direi spiritosa, il suo scritto era stentato, sebbene conciso; preferiva sempre la piccozza alla penna!

A lord Wentworth che lo richiese di ragguagli sulla loro prima ascensione dell’Aiguille Noire di Petéret, rispondeva questa frase tipica: «La description de cette course neuve ne me satisfait pas du tout, et je trouve que j’ai bien plus de peine et de soucis de décrire mes courses que de les faire!»

Il padre di Emilio, Giuliano Rey, era un uomo tipico per eccellenza. Il procedere franco della sua persona, l’espressione leale, ma ferma del suo sguardo indagatore, la sua parola, il suo gesto, tutto contribuiva a cattivargli di primo acchito ossequio e venerazione. Fu per molti anni capo-guida e per più di due lustri giudice conciliatore. Fu nel disimpegno giudizioso delle funzioni che importavano questa carica, che si conquistò amore e rispetto nel suo paesello. Tale fu il genitore di Emilio Rey; non potevo tralasciare un accenno al padre parlando di tanto figlio.

Rey, giovinetto, apprese ed esercitò il mestiere di falegname, nel quale divenne abilissimo. Fu lui, che più tardi, costruì i rifugi alpini delle Aiguilles Grises, del Colle del Gigante, delle Grandes-Jorasses, del Triolet e del Gran Paradiso. Chi abbia pernottato in quelle capanne non potrà a meno che tributargli riconoscenza per la loro ammirabile costruzione e solidità.

Prima di intraprendere la narrazione della sua vita avventurosa, visitiamolo nelle pareti domestiche. È là che il cuore di Emilio rifulge di vivida luce e come figlio, e come sposo, e come padre. Professò sempre profonda venerazione per gli autori dei suoi giorni. Come mi riuscirono strazianti le lagrime della sua vecchia madre, quando rivide, per l’ultima volta, l’idolo della sua vita.... cadavere!

Primo pensiero di Emilio fu sempre la famiglia. Quando trovavasi assente da casa, per cause inerenti alla sua professione, vi era però presente in ispirito. Ed era principalmente nei passi difficili che tale pensiero lo tormentava. Quale reazione esercitasse nel suo animo l’idea della morte, ne sia prova la calma impassibile del suo sguardo e la lucidità di mente che in quegli istanti possedeva in sommo grado. Non era lo spettro nero, no, che lo turbava, che gli ridonava forza e coraggio; ma bensì il pensare essere Egli il cardine della prosperità della famiglia, l’avere i figli giovani, epperciò abbisognanti di un sostegno, di una guida onde incamminarsi nella vita. Egli era padre premuroso e previdente: mercè la sua instancabile attività, procurò alla famiglia una prosperosa agiatezza. Diede ai figli una buona educazione, ma più di tutto suscitò in loro l’amore al lavoro.

Emilio Rey non era un uomo da godersi beatamente il meritato riposo colle mani alla cintola. Lui riposava lavorando. Terminata la stagione delle corse, appendeva ad un chiodo la corda e la piccozza, e correva pei campi ad invigilare gli ultimi lavori. Caduta la neve a ricoprir le campagne del suo candido velo, gli rimaneva la pialla per fargli parere meno lunghi i mesi invernali. Secondo Lui l’alternarsi di varii lavori costituiva un riposo. Che ne dite, lettori, di questa saggia filosofia?

Emilio Rey abbracciò la professione che lo rese celebre per spontanea vocazione. Egli non apprese ad essere guida cacciando il camoscio o sotto l’altrui scorta, ma di propria e volontaria iniziativa.

Fin da giovinotto, ci raccontava in questi anni, nel giungere su una prominenza, su una vetta qualunque, egli si sentiva invaso da un «bien aise» insolito e come purificato da ogni sozzura terrestre in quell’ambiente aereo e vivificante; e rimaneva lunghe ore estatico ad ammirare le bianche guglie delle montagne circostanti, sulle quali avrebbe bramato volare onde abbracciare un più vasto orizzonte.

All’età di 22 anni, nel 1868, cominciò il suo tirocinio di guida. Poco notevoli furono le corse compite nei primi tempi della sua carriera, limitandosi a poche vette del suo paese e della valle, ascensioni e passaggi riputati al giorno d’oggi come volgari, ma in quei tempi ritenuti scabrosi. Denotava, fin d’allora, di diventare un’eccellente guida.

Nel 1875 accompagnava l’ing. Angelo Genolini in un tentativo al Dente del Gigante, ripetuto poi due anni dopo con lord Wentworth e l’avv. De Filippi. A proposito di questa bizzarra vetta, insensibile alla assidua corte che le faceva un numeroso stuolo di ammiratori, a quanto mi riferiscono altre guide militanti allora, Emilio fiutava la possibilità di domarla, però non escludendo mezzi meccanici.

Fu solamente nel 1876 che il Rey cominciò a distinguersi fra i colleghi per quello che era. Venne impegnato per parecchio tempo da lord Wentworth, col quale salì le Grandes-Jorasses, il Castor, lo Strahlhorn, il Riffelhorn dal ghiacciaio di Gorner, più un tentativo sull’Aiguille Verte dai châlets di L’Ognan. Se non era per l’indisposizione di due guide, che si ammalarono quando già trovavansi vicino alla meta, quella sarebbe stata una vittoria del Rey. Egli tenne la testa della carovana per tutto il tempo e si distinse talmente che il Wentworth lo classificò tra gli arrampicatori di prim’ordine.

L’anno successivo guidò lo stesso alpinista in una serie d’importanti imprese, fra cui ascensioni di picchi vergini, quali l’Aiguille Noire de Pétéret e la Punta Giordano dei Jumeaux. Per vie nuove salì il Gran Paradiso dal ghiacciaio della Tribolazione, e la Grìvola, con una variante, da Valsavaranche. Fu pure all’Aiguille de Rochefort (seconda ascensione), ai Jumeaux, ed al Cervino, da Zermatt al Breuil, col quale faceva la prima volta conoscenza.

Il valente alpinista inglese scrisse belle pagine sul libretto di Emilio, gentile preludio di altre non meno piene di ammirazione per le sue eccezionali qualità. Lord Wentworth lo dichiarò abilissimo e forte alpinista, possessore di un tatto speciale per orientarsi in mezzo ai frangenti i più difficili.

A proposito di questo intuito delle guide, che istintivamente sanno afferrar subito il lato debole della montagna, propendo che esso consista non già nell’istinto naturale del montanaro, ma bensì nell’acquisita esperienza e profonda osservazione. Allorchè nel 1886, assieme alla guida François Simond, Emilio accompagnava il sig. H. Dunod alla Meije, non la conoscevano nè gli uni nè gli altri, «mais, sans hésitation, il devina si facilement l’issue des passages délicats, qu’ils détinrent pendant longtemps le récord de la vitesse». Partiti dal Châtelleret, compivano l’ascensione con passaggio della «Brêche» e scendevano a La Grave in sole 16 ore!3

Nel 1878 Emilio veniva a stringere relazione col Monte Rosa guidando alla Punta Dufour il dott. Theodor Petersen, allora presidente del Club Alpino Tedesco-Austriaco.

Dal 18 agosto a metà settembre del 1879, il Rey fu ritenuto da J. Baumann, che assieme al sig. J. O. Maund gli crearono una aureola di notorietà. A partire da questo tempo, tutti i più festeggiati alpinisti andarono a gara per averlo compagno e guida nelle loro escursioni. In quell’anno compiva, coi signori J. Baumann, G. Fitz Gerald e F. J. Cullinan, la prima ascensione dell’Aiguille di Talêfre, e della Dent d’Hérens per la cresta che dal Tiefenmattenjoch conduce alla sommità. Faceva pure le seconde ascensioni del Grand Dru, e del Cervino per la cresta di Zmutt, pochi giorni dopo il sig. Mummery colla guida Alexander Burgener. Per questa via, doveva pure accompagnare ultimamente a quel colosso S. A. R. il Duca degli Abruzzi, se il tempo non fosse venuto, quand’egli era ancor libero, a «gâter le jeu».

Sempre con J. Baumann, nel 1880 tentò l’Aiguille du Plan dal ghiacciaio di Blaitière. Questa vetta fu poi soggiogata poco dopo, dalla parte opposta compiendovi la seconda ascensione. Nella gita suddetta il Rey aveva compagno Andreas Maurer, col quale era amicissimo e doveva in seguito misurarsi sui picchi più ardui delle Alpi.

Nell’anno medesimo, con Georg Gruber esplorava il fianco meridionale del Monte Bianco, scoprendo il Colle du Fresnay (una sella nevosa che unisce l’Innominata alla parete rocciosa sostenente l’immane cupola del colosso alpino) e riuscendo sulla suprema vetta, direttamente dal ghiacciaio di Fresnay, variando nel percorso la strada tenuta nel 1877 da J. Eccles con Alphonse Payot. Questa ardita esplorazione gli fu di valido aiuto, come vedremo in seguito, nelle due ascensioni alla terribile Aiguille Bianche de Pétéret. Con lo stesso alpinista, nell’anno successivo, perveniva sul Monte Bianco dal ghiacciaio della Brenva e pel Corridor (14 luglio) e scopriva un nuovo passaggio nel gruppo del Triolet, il Col du Piolet, così denominato perchè dovettero abbandonare una piccozza alla quale avevano assicurato una corda onde scendere sul versante di Chamonix. La prima di queste escursioni non fu mai più ripetuta, sia perchè è pericolosissima per la caduta di blocchi di ghiaccio, sia anche perchè la cresta per la quale salirono al Colle della Brenva, non è sempre praticabile per il vetrato ricoprente le roccie.


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