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V

Un nuovo e più vivace elemento entrava nella vita di Guido Laurenti. Era una bella e nobile vita la sua, intelligente, studiosa, operosa, e si disponeva acconciamente a diventar feconda d'intendimenti generosi. Ma il calore non c'era; non c'era quella tal cosa che fa dire col poeta latino: «spiritus intus alit». Egli era, se posso giovarmi del paragone, come un bel disegno senza colore, o come un bel paese senza luce, il che poi torna lo stesso, imperocchè i colori non sono che le sette persone di quella santissima Settenità. Ora, quel nuovo elemento era come l'alba che rischiara il paese, facendolo nuotare dapprima in una vaghissima nebbia, tinta a gradi con tutte le più soavi temperanze della tavolozza dell'iride, e dandogli da ultimo que' toni più giusti, que' lumeggiamenti ricisi, che fanno risaltare ogni cosa in tutta la sua schietta bellezza, colla debita osservanza a tutte le leggi della prospettiva.

Tutte queste belle cose, che io dico del resto così male, non le disse a sè stesso, nè mal nè bene, il mio giovine protagonista. Egli non fece esame di coscienza allorquando, dopo aver pigliato il suo cappello dalle mani del servitore, stette ancora un pezzo immobile a guardare colà dove la bella gentildonna era sparita nel buio della sera, e non pensò neppure a farlo, quando con passi lenti e misurati rifece il viale del suo giardino per tornarsene in casa.

A che cosa pensava egli, mutando i passi dell'uomo pensieroso? A nulla, proprio a nulla. E del pari senza pensare a nulla, entrò in casa, appiccò il cappello alla prima gruccia del cappellinaio, e andò svogliato a sedersi su d'un divano del suo salotto.

Per la prima volta dopo dieci anni si sentì senza desiderio di metter mano a cosa veruna; se il servitore, vedutolo entrare colà, non si fosse affrettato ad accendere la lucerna, egli non avrebbe pensato a chiedere un po' di lume. E non pensava a nulla, non gli veniva neppure in mente di chiedere a sè stesso il perchè non pensasse a nulla.

Si alzò, e poichè si vide dinanzi il cembalo, andò a sedersi alla tastiera, su cui non metteva le dita da parecchi mesi, e accesi i torchietti, si fece a suonare quella stessa musica che vide squadernata sul leggio. La era una mazurka, ed egli suonò la mazurka; poi diede di mano ad un altro quaderno, e suonò quel che c'era, dalla prima all'ultima nota, senza nemmanco badare al genere del pezzo. Senonchè, la era musica in minore, e il minore è come le ciliegie, che una tira l'altra; e Guido Laurenti, senza metter mano ad altri quaderni, suonò una infilzata di romanze malinconiche, andando da ultimo a immorbidirsi in quella famosa del Verdi: «Quando la sera, al placido» con tutto quello che segue.

L'amore entrava, come i lettori vedono: c'era già la sera, e il placido chiarore del cielo stellato.

Egli tuttavia, ripeto, non ne sapeva nulla, e continuava a suonare come se fosse stato quello lo studio e il passatempo di tutte le sere, in cambio della Trasformazione delle specie di Darwin, o del Cosmos di Alessandro Humboldt.

Così del resto avviene mai sempre. Se l'uomo al primo mutar dell'aria fosse sollecito a mettere la sua brava flanella, non ci sarebbero più reumi nè bronchiti. E se ai primi segni di una simpatia, ma proprio ai primi, un uomo assennato facesse il suo esame di coscienza, pesasse il pro e il contro sulla bilancia, i rischi e i guadagni, io metto pegno che non andrebbe più innanzi. Ma, passano due giorni, e la flanella non è giunta a tempo per isviare la tosse; passano cinque, e i gagliardi propositi non custodiscono più dai colpi di un affetto veemente. La malattia è nei bronchi; la passione è giunta al cuore, e arrivederci col senno di poi!

Il primo pensiero di Laurenti (gli era proprio tempo che tornasse a pensare!) fu per la gentildonna veduta pur dianzi; ma era un pensiero innocente, naturale come la curiosità, legittimo come la compassione del prossimo. Ed ecco poi in che forma logica gli si dipanò nella mente, in quella che stava seduto al cembalo, cogli occhi sopra uno dei torchietti accesi:

«…..Povera donna! mi pareva molto stanca. Che male avrà? Era bianca come la cera intorno al lucignolo, e liquefatta del pari. Che la sia offesa nei polmoni? Sì certo; son queste le malattie in apparenza più dolci, che uccidono a gradi, e non c'è bisogno di starsene inchiodati in un letto per sentirsi morire. Si sfiaccola come questa candela; ci si rimette ogni giorno uno strato di vitalità; si ama sempre più la luce, il calore, quanto più vanno mancando di dentro; poi, la cera liquida, giunta all'ultimo strato, si riversa nella padellina, il lucignolo si abbatte, stride, e buona notte!

«Povera donna! Ma perchè non cura la sua salute? Le son malattie da badarci per bene. I medici le hanno sentenziate insanabili, poichè essi guardano alla interna rovina di un organismo e non alle cause morali che la guidano, come soprastanti alle opere di demolizione. Questi mali s'hanno a pigliare anch'essi pel loro verso; vuolsi curar l'anima in pari tempo del corpo. È ci vuol altro che olio di fegato di merluzzo! S'ha da svagare il malato, fargli mutare sensazioni, mutando paese, e via via. La dama è ricca. A quella palazzina e a quel magnifico giardino dee rispondere un largo censo. Perchè si lascia sgretolare a quel modo dal male!

«Chi sa? forse la ci avrà le sue millanta ragioni a non muoversi. Si è a volte legati in un paese con funi di canape, a volte con fili di seta… che tengono assai più forte del canape. E invero un marito non può essere impedimento a fare quello che la cura del proprio corpo consiglia; laddove un amante… Un amante! e perchè?…»

La supposizione dell'amante non pareva gli andasse molto a' versi. La masticò un tratto fra i denti, quindi balzò in piedi con piglio d'insofferenza.—Vadano in malora gli amanti!….. esclamò.—E le amanti!—soggiunse, ma più sommesso, come chi senta di dire una mezza bugia a sè stesso. E uscito dal salotto, andò a cangiar vestimenta, zufolando (egli che non zufolava mai); quindi uscì, dopo aver detto al servitore che sarebbe tornato tardi, poichè andava al teatro Carlo Felice; e uscì zufolando pur sempre.

Quella per fermo era serata di musica!

Il teatro Carlo Felice quella sera aveva faccia di legno. Laurenti, il quale non s'era più ricordato d'essere in lunedì, se ne addiede come fu alla porta; ma non se ne dolse; che anzi! Egli aveva detto al servitore e a sè medesimo che andava a teatro, soltanto per dire qualcosa, e gli parve una ventura di dover appiccare la voglia all'arpione.

Ha mai pensato il lettore che siamo sempre in due, dentro di noi, o, per dir meglio, che il nostro noi è composto di due persone, che una vuole e l'altra disvuole, e quella che vuole o disvuole più tenacemente non è sempre la prima per ragione di dignità? Egli avviene spesso nel nostro interno come un dialogo, un battibecco inavvertito, una sorda puntaglia, e le gambe e le mani nostre non eseguiscono sempre i comandi della parte più autorevole. La parte seconda, che è la materia, l'istinto, o quel diavolo che vorrete, pensa anco lei, e talfiata ragiona anche meglio dell'intelletto; testimone il fatto degli ubbriachi che non si rompono mai il nomine patris, e trovano sempre la toppa dell'uscio di casa, senza mestieri del lumicino della ragione.

Ora, uno dei due contendenti voleva che Guido andasse a passeggio; e fu proprio quello che si rallegrò nella mente sua, quando il capo di casa trovò chiuso il teatro.

Laurenti se n'andò dunque girelloni per la città, ma con una spasimata voglia di salire. E fu di tal guisa condotto per una strada larga, nella quale non si vedeva anima viva, e che egli per conseguenza potè popolare di morti a sua posta, vo' dire delle sue ricordanze giovanili, delle care imagini de' suoi parenti, e perfino de' suoi compagni di scuola, allorquando pigliava i primi granchi nel mare del sapere, chiamando le lettere dell'alfabeto con nome sempre diverso da quello che avevano avuto, dai Pelasgi fino al tempo presente.

Erano, in fin dei conti, innocentissime meditazioni, e non c'era nulla a ridire. Ma chi avesse potuto (come fa il lettore dietro la scorta di un minuto racconto) notare le speculazioni di Laurenti dal ciglio del muraglione, e scorgere nel suo soliloquio accanto al cembalo il germe di una simpatia per la signora della palazzina gialla, avrebbe anche notato che quella strada nella quale era ito a meditare, andava per l'appunto a far capo, indovinate dove! alla palazzina gialla.

Per la chiusa del primo giorno, non c'era male davvero!

VI

Il giorno seguente, mattiniero come al solito, il giovine botanico si diede tutto alle sue piante, e proseguì la sua opera di giardiniere accurato fino all'ora dell'asciolvere. Dopo i fiori, stando alle consuetudini, avrebbero dovuto venire gl'insetti; ma per quel giorno gl'insetti non ebbero molestia, e i trattati di entomologia dormirono sugli scaffali.

I fiori, poveretti, avevano sempre bisogno di qualche cosa; e in particolar modo quelli che stavano sul murello, sull'ultimo lembo del muraglione, che riusciva meno discosto dall'albero di pino. Laggiù c'era sempre qualche pianticella da curare, qualche mala erbuccia da sterpare, qualche ramo da tener ritto.

Tra questi lavori giunse l'ora del pranzo; poi giunse la sera. E sull'imbrunire, quando tacciono i mille rumori confusi del giorno, quando le fragranze delle erbe e dei fiori salgono come una vespertina preghiera della natura verso il cielo azzurro, una bella rosa di Torino e un magnifico garofano, che stavano vicini su quell'ultimo lembo del muraglione che ho detto, se avessero avuto parola umana, avrebbero fatto udire una conversazione curiosa. E' la fecero invero nella lingua loro, e nessuno avrebbe a risaperne verbo; ma io, costretto dal mio uffizio di romanziere a saper tutte le lingue, a origliare i soliloqui delle anime, a intendere perfino i sospiri, ho inteso anche quel dialogo, e posso riferirvelo dalla prima all'ultima parola.

–Ohè, vicino!—disse la rosa al garofano, toccandolo leggermente col sommo delle foglie agitate dalla brezza.—Dormite forse?

–Non dormo;—rispose il garofano—pensavo. E voi madonna?

–Io ho desiderio di far quattro chiacchere. Avete sentita la rugiada di quest'oggi?

–Sì, madonna, e vi so dir io che m'ha fatto un gran bene.

Tuttavia……

–Tuttavia, che cosa?

–Tuttavia, egli c'è stato un momento che mi sono provato a dir basta. S'intende acqua e non tempesta. Figuratevi, madonna, che ho preso la risciacquata per cinque volte alla fila.

–Com'io per l'appunto; ma io non me ne sono lagnata.

–Oh, voi siete buona come il carbonio di cui ci nutriamo; ma confessate che la è stata una cosa insolita. Gli altri giorni non s'è mai andati oltre le due.

–Gli è verissimo; quest'oggi il giardiniere ci ha avuto una gran sollecitudine per noi. Vedete, bel vicino, egli m'è stato attorno in un modo da dover essergli grata per tutto il tempo ch'io viva. Ci avevo già cinque o sei di que' brutti animaletti i quali s'inverdiscono del nostro sangue; ed egli, buonino, me li ha cavati con un fuscellino, che solo a sentirlo mi facea tenerezza.

–E a me, madonna, ha levato di dosso un bruco villoso…… sapete, di quelli che poi fanno i farfalloni……

–Son carine, le farfalle, con quelle loro ali screziate e asperse di polverina d'oro!

–Sì, ma i bruchi son pure le moleste bestiaccie. Io rinunzio alle farfalle, madonna, se, per vedermele poi aliare dattorno, ho da lasciarmi strofinare dall'epa di quei vermiciattoli neri. Insomma ei me lo ha tolto dai piedi, e poi mi ha strappato alcune foglioline avvizzite che mi erano uggiose.

–Gli è un bravo e bel giovinetto—disse la rosa di Torino.—Io non rifinisco mai di guardarlo, e certo il primo bottone ch'io farò, vuole rassomigliargli di molto.

–Badate, madonna! e' riuscirà troppo pallido.

–Ah, sì, gli è un giovine malinconico e sempre sovra pensieri…..

–Avete veduto—interruppe il garofano,—che cosa faceva egli quest'oggi?

–Che cosa?

–O non avete notato quell'arnese che si recava spesso davanti agli occhi, e che teneva qui sul murello, vicino al mio vaso, per averlo sempre sotto la mano?

–Sì, sì, un coso con due buchi lucidi, che devono esser fatti per guardare da lunge. E' lo alzava e lo abbassava ad ogni tratto, sempre nella direzione del giardino di sotto.

–Benissimo, ma usando sempre la precauzione di mettersi dietro le vostre foglie, o dietro le mie.

–Che cosa vorrà dire, vicino?

–Chi sa? Certo non lo avrà fatto per guardare il tempo.

–Ottimo giovine,—proseguì la bella rosa, che avea fermo il chiodo in quella considerazione.—Lo vorrei veder contento. Per me, vo' dirvela schietta, se ha da essere così impensierito, amo meglio che non mi dia da bere nemmanco un fil d'acqua.

–Oh, questo poi!—esclamò il garofano.—Io qui non mi accosto alla vostra opinione.

–Signor egoista!

–Madonna tenerina!

Un terzo interlocutore, dalla voce sonnacchiosa e burbera, venne a rompere quel dolce colloquio. Gli era un geranium triste, il quale stava lì presso, nell'angolo tra il muraglione e un muro di tramezzo, che separava il giardino di Laurenti da un camperello contiguo.

–Sì, adesso bisticciatevi ancora! La notte è fatta per dormire, e voi altri non lasciate pigliar sonno a nessuno.

–Che cos'ha quest'altro?—mormorò la rosa sbigottita al garofano.

Il garofano mulinava una risposta, ma non trovandola lì pronta e tale da offerire a madonna un alto concetto della sua dignità mascolina, non rispose un bel nulla.

Intanto il geranio proseguiva:

–Già, i contenti sono sempre incontentabili; hanno dieci e vorrebbero aver quindici, poi venti, e via discorrendo. Io che sto dietro questo muro…..

–Comodamente al riparo dalla tramontana!—interruppe beffardo il garofano, che aveva trovato la parola da dire.

–Io che sto dietro a questo muro—ripetè, senza dargli retta, il geranio—io non ho avuto uno sguardo del vostro Narciso, nè uno spruzzo d'acqua per cavarmi la sete. M'avesse detto: crepa! Già, io ci ho il peccato addosso di non essere sul murello, daccanto a voi altri. Il bruco che egli ha tolto da voi, messer garofano garbato, egli me lo ha gittato sopra di me senza neppure guardarsi da fianco. Ora voi non vi ringalluzzite tanto, madonna rosa! Io ci ho un occhio per foglia, e da qui, sporgendo il capo, ho potuto vedere che cos'è tutta la sua tenerezza per voi.

–E che cos'è?—si provò a dire sgomentita la rosa di Torino.

–Ah, ah! gelosa! C'è laggiù, in quel giardino, una bella signora, più bella di voi a gran pezza….

–Da che parte?—chiese pronto il garofano—da che parte, ch'io non l'ho veduta ancora?

–Là, dietro quella selva di magnolie e di allori. La viene qualche volta a diporto, per quel sentieruolo a manca. Ieri il vostro amico è stato per due ore a contemplarla. Oggi non la è venuta affatto, ed egli ha avuto un bell'aspettarla, e darvi da bere a voi altri, e cavarvi i bruchi, signor garofano, e spidocchiarvi, signora rosa…

–Oibò!—disse la rosa, arricciando le foglie.

–Eh! io non ve le so dire le belle parole; dico acqua all'acqua, e non so come il vostro bel giardiniere battezzi quelli sconci animaletti che ci avete voi sulla persona, bella schifiltosa! Del resto sappiatelo: la dama per tutt'oggi non s'è vista, ed egli se ne strugge… ve lo so dir io, se ne strugge!

–Adesso, crepa di rabbia!—aggiunse mentalmente il geranio a guisa di perorazione, e si messe a dormire, contento come chi pensa d'aver fatto un'opera buona.

–Povero giovine!—mormorò la bella rosa di Torino, e reclinò pensierosa le sue foglioline.

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