E comincia pure (se non sarebbe meglio dire: continua) l'equivoco fatale, per cui ogni atto, ogni parola del Papa si traggono ad un senso maggiore, più largo e in sostanza diverso, che non abbiano in realtà, e solo uno schiarimento ch'egli voglia dare del suo pensiero, de' suoi scrupoli o delle sue ripugnanze s'interpreta prima per un artificio e una vittoria dei gesuiti o degli austriacanti, poi per una sua defezione e finalmente per un vero e proprio tradimento alla causa italiana.
La Consulta di Stato, che per lui era il non plus ultra delle sue concessioni, si tira subito ad un principio di governo rappresentativo, e non sono i soli democratici e gli esaltati ad interpretarla così, ma gli stessi moderati, che della Consulta fanno parte. L'aver restituita a Roma una rappresentanza municipale pare al Papa un gran che e da doversene contentare i più esigenti. In quella vece la rappresentanza municipale chiede subito, come complemento necessario d'ogni riforma, la Costituzione, mentre d'altro lato cardinali, diplomatici, Gesuiti assediano Pio IX, perchè non si lasci andare alla corrente e profetizzano scismi, eresie, il finimondo, ad ogni nuova sua concessione.
Delle ambiguità, delle incertezze, dell'innanzi e indietro di questa bizzarra situazione, il satirico popolare romanesco dà torto agli altri e non al Papa:
Chè tra Erode e Pilato, Anna e Caifasso
Io, er Papa dirà, me chiamo gesso;
Cor una mano scrivo e l'antra scasso.
Ed anche il grande satirico toscano lo scusa:
Col parapiglia di questi anni addietro,
Oh remerebbe adagio anche San Pietro!
Se non che il Radetzky a Milano s'incarica esso d'accentuare le provocazioni del Metternich, fors'anco al di là delle intenzioni del principale; al Viva Pio IX la soldatesca austriaca risponde a fucilate; si massacrano vecchi, donne, fanciulli; sono quelli, che Massimo d'Azeglio chiamò i lutti di Lombardia; ed in Roma nella stessa protesta vedete uniti i nomi di Ciceruacchio e di Marco Minghetti e nella stessa chiesa a pregar pace alle anime delle vittime, democratici e consultori di Stato, la bizzarra principessa Belgioioso e la saggia contessa Antonietta Pasolini.
D'ora in poi gli eventi non si seguono più, ma s'accumulano, s'accavallano, come le onde d'un mare in tempesta, nè bastano neppur più le date a distinguerli, perchè esse pure si rincorrono, e si confondono le une sulle altre. Palermo insorge il 12 gennaio 1848; il 29 il Borbone di Napoli dà la costituzione; l'8 febbraio l'annuncia Carlo Alberto; il 17 il Granduca di Toscana; il 22 Parigi caccia gli Orléans e proclama la repubblica; il 13 marzo la stessa fedelissima Vienna insorge e manda a rotoli quell'onniveggente Principe di Metternich, che era persuaso d'aver imbrigliato il mondo per sempre; il 18 marzo Milano, e dopo una lotta eroica caccia gli Austriaci; il 22 Venezia, e l'Austriaco Zichy si perde d'animo dinanzi a un filologo e a un avvocato, a Tommasèo ed a Manin; il 29 marzo Carlo Alberto passa il Ticino.
Mi fermo, signore, chè non abbiate a dire che io sto compilandovi un calendario. Ma appunto questa ressa incalzante di date, questa rapidità vertiginosa di eventi sono la caratteristica principale di questo tempo e spiegano meglio di molte parole il delirio, la febbre, il tumulto, che investono, sconvolgono e trascinano tutto e tutti. In men di tre mesi l'Italia è costituzionale, la lotta per l'indipendenza è cominciata, l'Europa è in fiamme.
Pensate ora quello che doveva passare nell'animo di Pio IX, nell'animo di quel povero curato di campagna, quando, contemplando dall'alto del Quirinale l'universale pandemonio, che gli turbinava dinanzi, e rientrando in sè stesso, doveva dirsi: «e sono io, proprio io, che ha dato le mosse a tutto questo! tutti questi popoli si rovesciano l'uno contro l'altro, acclamando il mio nome! sono io la prima favilla, che ha fatto divampare questo incendio!»
Se non si tien conto di questo smarrimento angoscioso dell'animo di Pio IX; se non si tien conto del dubbio terribile, che lo travaglia, d'avere per un fine politico messa in pericolo la religione; se la sua defezione seguente, la quale fu certo una delle cagioni principali della rovina di tutto il moto italiano ed europeo del 1848, si vuole arrecare o tutta all'insita e insuperabile contraddizione, che è fra il dogma e la libertà, fra il Papato e l'Italia, o tutta alla malafede e alla dappocaggine di Pio IX, che tratto dalla vanità delle lodi e degli applausi non chiede di meglio che farsi strumento ad una tregenda d'inganni per meglio dominare le coscienze e ribadire la servitù dell'Italia, non si comprende Pio IX, nè si è equanimi e giusti verso gli uomini politici, che da prima gli si accostarono, nè si valutano i fatti come sono. Appunto perchè quella contraddizione esisteva (non assoluta, perchè nulla v'è d'assoluto nei fatti umani) appunto perchè quella contraddizione esisteva ed esiste, era ed è naturale ancora, che vi fosse allora e che vi sia ora, chi credeva e chi crede alla possibilità di toglierla di mezzo o di conciliarla. Appunto perchè Pio IX non è un Napoleone, come diceva egli stesso, bensì un povero curato di campagna, tanto più sono palesi così la sua imparità alla mole di eventi, che gli si rovesciò addosso, e la sua imprevidenza, come la sua buona fede e la sua innocente meraviglia, il suo accusar tutti di ingratitudine, le sue esitanze, i suoi inutili tentativi di fermarsi e di retrocedere e finalmente la sua defezione.
A questo tragico momento della sua vita, in cui miseramente affondarono la sua gloria, il suo nome, ogni sua benemerenza patriottica, quello stesso ideale forse, sia pure irraggiungibile, ch'egli avea creduto di rappresentare (e che altro sono, del resto, la vita e la storia se non una continua corsa verso ideali irraggiungibili?) a questo tragico momento della sua vita la reazione era lì pronta a spalancargli le braccia ed egli, da quel debole uomo che era, vi si gettò, vinto, disilluso, sottomesso, pentito.
Sbaglierò, ma questo, secondo me, è il Pio IX della storia, non quel machiavellico tiranno a nativitate, che radicaleggianti e mazziniani ci dipingono; non quella vittima sacra all'eccidio e perciò appunto inebriata d'applausi e coronata di fiori dai liberali d'ogni tinta, che ci è rappresentata dal Padre Bresciani nell'Ebreo di Verona e da tutta la massoneria gesuitica e gesuitante; non quell'ombra vana, fatta di nulla, mai esistita nella realtà e nella storia, ma soltanto in una aberrazione momentanea della fantasia popolare, che il Cattaneo ed il Saffi pretendono, e i cui errori e le cui colpe i radicali e i repubblicani attribuiscono tutte, per odio di partito, ai riformisti ed ai moderati, e questi alla lor volta attribuiscono tutte ai radicali e ai repubblicani, come se buona parte di quegli errori e di quelle colpe non spettasse rispettivamente agli uni ed agli altri, e come se i retrogradi, gli austriacanti, la Corte, la Curia Romana ed i Gesuiti non avessero approfittato egualmente degli errori e delle colpe di tutti, per riconquistare il terreno, che le prime mosse di Pio IX aveano fatto perdere loro e, a quel che pareva, per sempre.
Se non che tali polemiche partigiane, surrogate ormai da tante altre peggiori, sono oggi fuori di moda. L'odierno positivismo storico, alquanto volgaruccio e che spesso si scambia, non so perchè, per libertà di pensiero, le scarta tutte, riferendo la grande illusione destata da Pio IX e i successivi disinganni e la catastrofe finale all'assoluta contraddizione storica e dottrinale, che è fra dogma e libertà, Papato ed Italia, e concludendo: «è accaduto così, perchè doveva accadere così e non poteva accadere altrimenti.» Ma che razza di positivismo è mai questo, che introduce una simile e così inesorabile fatalità nella storia? che per amore d'un preconcetto, sia vero o no, toglie ogni significato e ogni ragion d'essere ai fatti come accaddero e persino ai principali attori della storia ogni responsabilità? Perocchè se quella contraddizione è così assoluta e le conseguenze di essa sono così fatali, in tal caso, mi pare, il primo a dover uscire assolto da ogni torto avrebbe a essere Pio IX. Mettete pure un Napoleone al posto del povero curato di campagna, e il risultamento potrebbe forse essere diverso? E che vogliono significare allora tutti quei popoli, che insorgono, e tutte quelle franchigie e libertà rivendicate, e tutte quelle battaglie combattute al grido di viva Pio IX in Italia e fuori d'Italia?
È tale e così grande spettacolo e così nuovo nella storia, che lo stesso Pio IX, quantunque angosciato già di mille scrupoli e di mille dubbiezze, ne è estasiato per primo, e dopo avere nell'allocuzione del 10 febbraio 1848, scritte le parole famose: «benedite, gran Dio, l'Italia», ripete a viva voce il giorno seguente a tutto il popolo quelle parole medesime, che avranno un'eco così potente, e quando Milano e Venezia e Parigi e Vienna sono insorte al grido di viva Pio IX, egli nell'allocuzione del 30 marzo non potrà a meno di dirsi commosso che i conforti della religione abbiano preceduto colà i pericoli dei cimenti e inspirati quegli eroismi patriottici, quei sentimenti di generosità verso i vinti, tutti segni esteriori di quell'accordo pieno, e sia pur momentaneo, di tutte le facoltà della coscienza umana, che formò allora la poesia nuova, l'universalità vera e mai più rinnovatasi di tutto il moto del 1848 e che sia pure dinanzi alla critica filosofica una grande illusione, non è meno un fatto per questo, i cui ricordi Cesare Correnti (un progressista impenitente) chiamava tanti anni dopo, con una delle sue frasi sentimentali, le reliquie d'un amore tradito, e su cui ben meschino è il positivismo storico, che può passare senza rispetto, senza risentirne le profonde emozioni di quei giorni, e peggio ancora che può sfatarlo del tutto per orgogli razionalisti, che in sostanza valgono quanto la fede delle beghine, o per passioni politiche, che valgono ancora di meno.
Fino a questo momento è il sogno del Primato di Vincenzo Gioberti, che sembra divenuto realtà; fino a questo momento Pio IX è quel Papa e l'Italiano è quel popolo, che il Gioberti ha sognato. La situazione è dominata ancora da questa potente idealità, e per qual via si giunge a vederla poi dominata invece da un'idealità affatto opposta, e surrogato insomma, per dir tutto in una parola, al Gioberti il Mazzini? Per via dell'equivoco, che passa fra Pio IX ed il popolo, al quale equivoco ho già accennato, e che ingrossando via via compirà il vero e irrimediabile distacco. Quest'equivoco s'insinua come un cuneo tra popolo e principe, e a profondarlo sempre più e ad affrettare il distacco raddoppiano i colpi i retrogradi da un lato e i demagoghi dall'altro. La malafede è qui, non in quel popolo e in quel principe, sbalestrati entrambi, se si vuole, da una reciproca illusione, ma per parecchio tempo ancora entrambi, agitati già forse da dubbi, scrupoli e dolorosi ricordi, ma schietti, sinceri, in buona fede nei loro intenti e nelle loro speranze. Quando questa buonafede verrà meno nel popolo e nel principe, sarà segno che retrogradi e demagoghi, gesuiti e mazziniani hanno compita l'opera loro.
O io m'inganno a partito, o questa (a volerla fare) è la psicologia, positivista davvero, che in quell'ambiente e in quel momento ci fa scoprire i documenti umani di questa storia.
In forza di quell'equivoco niuno porrà mente alle riserve, che il Papa ha fatte, agli ammonimenti quasi severi e corrucciati, che si contengono nelle sue due allocuzioni del 10 febbraio e del 30 marzo. E le parole stesse, ch'egli, parlando al popolo dal balcone del Quirinale, ha immediatamente soggiunte al suo famoso: «benedite, gran Dio l'Italia» niuno le ha sentite o le ha volute sentire. Eppure egli avea detto chiaro e tondo: «non mi si facciano domande, che non posso, non debbo, non voglio ammettere,» e Pellegrino Rossi, che sentì quelle parole, disse, volgendosi a Marco Minghetti, ch'era con lui: «il Papa ha ricorso a un rimedio eroico; per questa volta sarà esaudito, ma guai, se si avvisasse di riparlare al popolo; ogni suo prestigio sarà perduto.» E così fu in realtà!
D'ora innanzi si procede più in fretta, ma la fiducia reciproca va scemando nel Papa e nel popolo, appunto perchè il primo non concede, nè resiste a tempo, e la concessione è sempre più larga o slargata al di là delle sue intenzioni, ed al secondo pare sempre di non aver nulla ottenuto, se non ottiene di più.
Così in poco d'ora, dal 12 febbraio al 10 marzo, si passa da un Ministero misto di laici e di prelati ad un Ministero quasi laico del tutto ed in cui entra col Pasolini e col Minghetti Giuseppe Galletti, i primi due le più spiccate figure del partito riformista e moderato nello Stato Pontificio, l'altro lo specimen precoce di quei radicali ed ex cospiratori, che a cuor leggero trapasseranno dal Ministero Papale alla rivolta del 16 novembre, da questa alla Costituente, dalla Costituente alla Repubblica.
Il 14 marzo anche Pio IX concesse la Costituzione, ed il Ministero che doveva attuarla, non solo non l'avea pensata e compilata lui, ma neppure la conosceva, perchè manipolata in segreto da una Commissione di prelati e di cardinali. Pellegrino Rossi, appena vide quell'informe intreccio di poteri, di giurisdizioni e di diffidenti cautele, annientantisi l'una coll'altra, la giudicò così: «è una guerra legalizzata fra sudditi e sovrano;» giudizio profondo, degno dell'uomo, ma giudizio solitario allora, e a cui nessuno partecipò.
C'era ben altro! Ben altra guerra premeva: la guerra d'indipendenza, il porro unum necessarium del Balbo, ed ecco il Papa in conflitto prima di tutto con sè stesso e coll'ufficio suo di pastore di tutti i Cattolici; ecco che il Ministero, il quale nella sua maggioranza non chiede di meglio che far la guerra e assecondare l'impeto d'entusiasmo, da cui è spinto tutto il paese, ecco che il Ministero si trova tosto alle mani il più intricato dei problemi: far dichiarare al Papa la guerra contro una nazione cattolica, o come principe metterlo in aperto contrasto con gli stessi suoi Ministri e coi sudditi, tutti d'un animo in tale questione.
L'unica soluzione del problema pare una dieta federativa di stati italiani, a cui partecipi il Papa e che dichiari essa la guerra e stabilisca essa il contributo d'uomini e danaro spettante a ognuno dei confederati. Così la responsabilità diretta del Papa sarebbe eliminata, ed i suoi scrupoli, legittimi o no, sarebbero quietati.
Chi n'avesse il tempo, signore, bisognerebbe seguire questo negoziato in tutte le sue fasi, vederlo trattato sotto tutte le forme, travagliarvisi intorno gli animi più elevati e i più eletti ingegni del tempo, indagare perchè non riesca mai e quanto per colpa delle intrinseche sue impossibilità, quanto per colpa degli eventi e quanto infine per colpa degli uomini. Certo la sua non riescita è la cagione più larga della rovina del gran moto del 1848, ma Pio IX, si noti bene, ci ha forse meno colpa di tutti gli altri, meno di certo degli statisti Piemontesi, i quali temono sempre di compromettere le aspirazioni dinastiche di Casa Savoia, meno di certo del Borbone di Napoli, il quale in piena malafede non pesca mai in questo negoziato se non un mezzo indiretto per domare la ribellione di Sicilia.
Ciò è dimostrato dalle strane vicende della delegazione napoletana venuta in Roma a trattare e in cui fa la sua prima apparizione politica Ruggero Bonghi, e da quelle non meno strane dei negoziatori Piemontesi fino al Rosmini, il più illustre, il più sincero, il più convinto di tutti, e che perciò appunto si trovò alla fine sconfessato da' suoi stessi mandanti.
Se non che mentre le pratiche diplomatiche per la Lega e la Dieta si trascinavano senza conclusione in difficoltà bizantine, i fatti s'incaricavano essi di concludere da sè soli.
Carlo Alberto è già in campo contro l'Austria. Volente o no Pio IX, partono da Roma e da tutto lo Stato Pontificio i volontari e le truppe sotto la guida del Durando e del Ferrari, ed il Durando, con un proclama fornitogli dalla penna romantica e neoguelfa, che ha scritto l'Ettore Fieramosca e il Niccolò de' Lapi, bandisce la guerra santa al grido di: Dio lo vuole; evoca i ricordi delle Crociate, di Alessandro III, dei liberi Comuni vittoriosi a Legnano; e passa il Po.
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