Читать бесплатно книгу «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I» Various полностью онлайн — MyBook
 



 



 



 



 


 



 



 



 



 





 


 




 


 


 







 





 





 





 






 









 





 



 


 







Sul qual proposito, però, è bene intendersi; e mi parrebbe ormai l'ora, prima che s'esca dal secolo che fra poco a chiamar nostro rimarremo soli noi vecchi. È stata una superba malinconia de' signori ottocentisti (consegnamoci senz'altro alla storia), una malinconia superba o piuttosto una iattanza vana, questa: che solamente a' dì nostri la letteratura italiana si sia giovata della lingua viva o, come è di moda dire, parlata; e ciò specialmente a rovescio e in onta di quel gran signore che fu il Cinquecento, il quale, a sentir cotesti scriventi loro soli la lingua parlata, non fu che uno sfarzoso accozzatore di locuzioni boccaccevoli, di emistichii petrarcheschi, di periodi ciceroniani. La verità vera è invece, che ciascun secolo ha scritto la lingua che parlava, finchè e nello scrivere e nel parlare non è entrata, con la servitù politica e, peggio con la intellettuale e morale, la corruzione anche dell'idioma; il che fu solamente dopo passato il Secento: e che se a' nostri giorni, col rivendicare il diritto e lo stato politico di nazione, ce ne siamo altresì venuto rifacendo, il meglio che si poteva, il carattere; se per la restaurazione di questo nella lingua, si è voluto e saputo, dopo la regressione al nazionale antico operata artificialmente ma non senza utilità dai puristi, volgerci al nazionale vivente interrogando il popolo, e cioè il popolo di quella fra le regioni nostre che sola non abbia dialetto; tutto cotesto non vuol dire, come per certuni parrebbe, che la letteratura italiana incominci da quando si è racquistato il sentimento italico della toscanità; da quando l'unità della lingua in Firenze, non più astrazione litigiosa fra uomini di lettere dal Bembo al Monti, è divenuta una cosa dimostrata col fatto, meglio che con le teorie, dall'Autore dei Promessi Sposi; nè che il Giusti (per tornare al nostro argomento) sia quello fra i poeti che abbia, lui per primo, dato l'esempio del «pigliare arditamente in mano il dizionario che ci suona in bocca»: lui che, del resto, in una delle sue prefazioni, definì la propria «un genere di poesia che può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata».

Sarebbe non breve discorso, e trattazione d'un argomento a sè, il mostrarvi come cotesto dizionario si è saputo maneggiar sempre e da tutti, grandi e piccini, anche nel prevalere di questo o quello stile (perchè altro è lingua, altro è stile) fatti invalere fra gli scrittori dall'autorità preponderante di questo o quello fra i nostri solenni maestri, e specialmente nel Cinquecento dal Boccaccio e dal Petrarca. Mi contenterò (e non voglio entrare nella prosa, solamente perchè vi parlo di poesia) mi contenterò di due soli esempi: e uno sia nientemeno che Dante. Non per la Commedia: la quale pure sappiamo oramai quanto grande portato ella sia, propriamente del volgar fiorentino del Due e Trecento (e le postille del Giusti al divino Poema mostrano com'egli ne sentisse tutta l'attualità, di contenuto e di forma); non pel Poema, dico, ma invece per certi Sonetti che Dante scrisse poco dopo il 1290, e che da quanto erano, diciamolo pure, piazzaioli, non si volevano nemmeno riconoscere per suoi; ma che pur troppo sono e suoi e del suo parente Forese Donati (colui che poi mandò, al Purgatorio fra i ghiotti), col quale fanno a dirsele a botta e risposta con quello zelo che in simili casi la parentela suole ispirare. Or bene, chi raffronti i documenti poetici di cotesta Tenzone di giovinastri con un certo Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai Libri criminali di Lucca da un ingegnoso erudito vivente, vedrà che il dizionario «schietto e paesano» del Giusti il divino Poeta lo sfoglia, pe' suoi tempi, con abbastanza modernità. L'altro esempio è di messer Angelo Poliziano, il poeta dell'Orfeo e della Giostra, il principe degli umanisti nel Rinascimento, che però fu anche il gaio rimatore delle Canzoni a ballo e dei Rispetti. Ora io vorrei potervi leggere un paio solamente di quelle vispe e succinte e ogni tanto sboccate poesiole, e ne sceglierei due che si potrebbero intitolare, l'una Il segreto d'amore e la confessione, e l'altra Il galletto, la chiocciola e la nave in porto; e poi vorrei dimandarvi, se il Giusti, che nella sua piuttosto scarsa erudizione è presumibile non le abbia mai lette, avrebbe potuto ricusare all'eruditissimo fra i poeti la lode, che esso il Giusti, in quella sua Arte poetica degli Scherzi, si arrogava a buon diritto, di non avere «svisato i propri concetti» per l'ambizione di «tradurre sè stesso». Vi assicuro che le gentildonne fiorentine, leggendo a diletto in questo palazzo mediceo le strofette incantevoli del Poliziano, non avranno avuto alcun bisogno di ritradurre.

Più altri esempi ci offrirebbero e la poesia burlesca e la comica del Cinquecento, e nell'età di decadenza que' tali poeti con cui vedemmo che il Giusti per le qualità sue esteriori si ricongiunge. Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, – mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile – non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.

Se non che il Giusti fu, e doveva essere, messo sopra a quelli altri, perchè nessuno di essi seppe o volle adoperare e temperare la lingua del popolo toscano alle alte cose alle quali lui la indirizzava; e nessun d'essi altresì aveva nell'anima ciò che il Giusti ci aveva, e che espresse nelle poesie che ho chiamate sentimentali; All'amica lontana, Affetti d'una madre, La fiducia in Dio, Il sospiro dell'anima, A Roberto nel 1841, A una giovinetta nel '43, e in quella stupenda, nona rima fra il '46 e il '47 a Gino Capponi, dov'egli, in cospetto del rinnovamento italiano e delle speranze magnanime, pronuncia il non sum dignus d'essere il censore del suo popolo risorto e ringiovanito. È il Giusti, che gareggiando con lo scalpello del Bartolini, scolpisce in un verso

 
quasi obliando la corporea salma
 

l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:

 
Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,
or mi sento co' pochi alto levato,
ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
 
 
E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,
 
 
che al genio è donna, e figlia è di natura,
e in parte ha forma della madre, e in parte
di più alto esemplar rende figura;
come l'amante che non si diparte
da quella che d'amor più l'assicura,
vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
e d'innovarmi nel pudico amplesso
la trepida speranza ancor mi dura.
 

Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:

 
Goder d'ogni mio bene
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;
io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
Oh se per nuovo obietto
un dì t'affanna giovenil desìo,
ti risovvenga del materno affetto!
nessun mai t'amerà dell'amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in quelle braccia
nasconderai la faccia;
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
 

Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»

E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.

Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.

V

Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento… Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all'ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L'Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri.»

1
...

Бесплатно

0 
(0 оценок)

Читать книгу: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I»

Установите приложение, чтобы читать эту книгу бесплатно