L'eccezione, voi l'avete indovinato, deve cercarsi nello Stato Sardo; che venne pigliando, attraverso molte contraddizioni, il suo preciso indirizzo, soprattutto dopochè, morto Carlo Felice, senza discendenti diretti, saliva al trono, il 27 aprile 1831, un uomo, contro il quale s'è per lunghi anni sbizzarrita un'aspra e ingenerosa polemica, Carlo Alberto, principe di Carignano.
È un nome che non può uscire dalla penna o dalle labbra, senza richiamare ogni animo gentile a profonde meditazioni. Fu nella vostra città, in Firenze, ch'egli venne a cercare conforto de' suoi primi dolori; fu il vostro gran cittadino, Gino Capponi, che ne ottenne le prime confidenze di uomo e di principe. Chi lo ha chiamato Amleto, non ha riassunto che ima parte dell'anima sua; poichè Amleto ha ucciso di spada per vendicare la patria, Carlo Alberto s'è ucciso di dolore per liberarla; Amleto è morto nel dubbio, Carlo Alberto è morto nella fede, – in quella fede che sul campo di Novara gli aveva fatto indovinare Vittorio Emanuele II.
Più nel vero è il marchese Costa de Beauregard che lo chiama le plus grand des méconnus. È infatti questa l'amarezza che gli avvelena la vita: essere sempre giudicato a rovescio, – essere accusato di accarezzare sentimenti in diretta opposizione coi suoi. Ha il desiderio di allargare a' suoi sudditi le funzioni del governo, e lo chiamano reazionario; dirige tutta la sua politica allo scopo di render possibile una guerra d'indipendenza, e lo chiamano austriacante; abdica e muore per rimanere fedele alla sua missione, e lo chiamano traditore.
Sono le grandi ingiustizie dei contemporanei che la storia è sovente chiamata a rintuzzare. E dopo cinquant'anni sono ormai già tanto rintuzzati, che ognuna delle pubblicazioni relative a Carlo Alberto aggiunge una giustificazione od un elogio per lui, nessuna riesce ad aggiungergli un biasimo od una colpa.
Il pensiero politico ch'egli porta al trono e con cui dirige lo Stato è il pensiero dell'indipendenza italiana. Nè, malgrado le difficoltà dei tempi, lo teneva talmente celato che non si avvertisse dai ministri suoi, più invecchiati nel sentimento dinastico e nella tradizione diplomatica del diritto divino. Quando infatti, sollecito di non tradir l'avvenire, nominava a suo ministro degli affari esteri un uomo innamorato delle vecchie forme, il conte Solaro Della Margherita, questi lasciava scritto fin dal 1835: «Non ebbi d'uopo di grande scaltrezza per iscoprire, che oltre al giusto desiderio d'essere indipendente da ogni influenza straniera, egli era fin nel profondo dell'animo avverso all'Austria e pieno d'illusioni sulla possibilità di liberare l'Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò la parola di scacciare i barbari, ma ogni suo discorso palesava il suo segreto».
Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della casa di Savoia, non è difficile supporlo e non gli procurerebbe nessun rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro uscì pure una frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la previsione dell'avvenire; poichè all'inviato suo, conte Ricci, che gli poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esitò a rispondere fin dal 1845: «Conte, la forma dei governi non è eterna; cammineremo coi tempi».
Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto. Nel 1821, fu detto, tradì i suoi amici, ai quali aveva promesso di aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli all'esilio od alla morte.
Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.
Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse promesso ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse traditi.
Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.
Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.
Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'è mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.
Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.
E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?
Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offrì il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per non avere scritto quei versi».
E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda mazziniana, disciplinata nella Giovane Italia. Pioveva, come suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura1. Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero, secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono più d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di grazia.
E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze, le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non è offesa dagli atti loro.
Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare più tardi una macchina per l'indipendenza italiana?
Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.
Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.
I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilità.
Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.
Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo ardimento, e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla nobiltà della causa per cui lo fece.
In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.
E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.
È assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo, essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealtà, e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di sentimento o di cuore. Tutto ciò risponde ai dettami di quell'egoismo, sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le novità del mondo.
Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848, fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe virtù di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionfò e trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano più che ricordi, rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni di dolori e di speranze, un solo principe buttò agli eventi la sua corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giurò la Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealtà non mai smentita dei successori?
Non è dunque vero che la modernità debba uccidere gl'ideali per far vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri è l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla logica degli eventi.
La morale pubblica non può essere, non è diversa dalla morale privata. Attingono entrambe la loro autorità dal sentimento del dovere, che non è mai in contrasto coi dettami della virtù.
Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che nella vita privata la disonestà produca dei felici. Potete affermare, senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperità degli Stati è in ragione diretta dell'onestà dei Governi.
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