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LA VITA PRIVATA DEI FIORENTINI

DI
GUIDO BIAGI

Signore e Signori,

Quale fosse la Firenze del Tre e del Quattrocento non è facile immaginare. A riguardarla dall'alto, da uno di quei colli che le fanno ridente corona e oggi son per lei mutati in altrettanti giardini, mentre forse allora nereggiavano d'alberi folti, di macchie e di scopeti, appariva come una bruna massa di torri merlate, cinta di mura e di baluardi. I pubblici edifizi che noi ammiriamo, le aeree cupole delle chiese, i campanili, nella cui voce è il palpito della vita d'un popolo, non ancora drizzavansi tutti nel fondo azzurro del cielo, come le antenne poderose d'una nave a più alberi. La terza cerchia, quella istessa che noi vedemmo abbattere, non era interamente compiuta, e l'Arno faceva il suo gorgo dove è ora la Piazza di Santa Croce, sboccando tra il Ponte a Rubaconte e il Castel d'Altafronte.

Questo a' primi del Trecento, quando la piccola chiesa di Santa Reparata durava tuttavia e di Santa Maria del Fiore era ignoto il nome; e nel luogo dove sorse la Loggia d'Orsammichele tenevasi il mercato delle granaglie, e il campanile cominciato da Giotto e che da lui prese il nome, non era ancor stato condotto fino alle ultime finestre da Francesco Talenti: soltanto di sulla torre del Palazzo dei Priori, già la grande campana del Popolo, “la Vacca„, mugliava, facendo in alto echeggiare il dolce suono della libertà1.

Le miniature del Biadajuolo, raffresco del Bigallo, appena ci danno un'idea della Firenze di quegli anni. Sono rappresentazioni fantastiche, dove la prospettiva è ancora ignota, e i tetti di color rosso vivo staccan di tono dalla selva delle torri che s'intrecciano e si accavallano. La tavola di Domenico di Michelino, che si vede in Duomo, vorrebbe mostrarvi la Firenze di Dante, la cui figura spicca nel mezzo del quadro; ma anche cotesta è una Firenze immaginaria, quanto il Purgatorio e l'Inferno che l'artefice le ha dipinti da presso. Una veduta della città, ma assai più recente, troviamo nella tavola che il Botticelli compose per Matteo Palmieri; una tavola, il cui soggetto tolto dal poema di lui la Città di vita, parve quasi ereticale; perchè il pittore, dipingendo la Vergine Assunta nella gloria del cielo, circondata dalle più sublimi visioni dell'idealità femminile, creò schiere di angelesse così formose, da far giustamente temere per i futuri amori degli angeli. Ma il paesaggio che serve di sfondo alla meravigliosa composizione, sfuma nella lontananza e nell'ombra d'un crepuscolo dorato, e al desiderio nostro non giova. Il quale potrà soltanto appagarsi più tardi, quando nelle Cronache di Norimberga scorgeremo una pianta della città quale era alla fine del Quattrocento.

Ma a rappresentarci Firenze dal Trecento a' più gloriosi giorni del Rinascimento, quando i tesori raccolti in tutto il mondo da' suoi mercatanti versò nella creazione di monumenti immortali, proseguendo le tradizioni delle arti inaugurate per mano di Arnolfo, di Giotto e dell'Orgagna2; a rappresentarci lo scenario e la scena ch'io vorrei popolarvi con le figure d'artieri, di mercanti, di donne, di chierici, di trecche, di poeti, di novellatori, d'uomini d'arme, di forosette, di villani, di donzelli, di cavalieri, che mi s'affollano nella lanterna magica del cervello e che vorrei potervi dipingere in questo quadro della vita privata; a darvi un'idea viva se non compiuta, a darvi come una visione della storia del nostro popolo, che dalla rozzezza antica si condusse ai raffinamenti della Rinascenza, non basterebbe tutta l'opera d'un artista che fosse insieme storico, archeologo e poeta; non basterebbe – Dio ci liberi! – un corso intero di conferenze ideali, fatte con la parola e illustrate con il pennello. Ma finchè la donna, che ne è maestra, non abbia reso obbligatorio l'insegnamento per gli occhi dovremo contentarci di saggiare appena un così gustoso argomento, scegliendo nei vecchi libri di ricordanze, nelle cronache domestiche, nei carteggi, nei novellieri e nei poeti qualche particolare men noto, qualche aneddoto, qualche notizia che ci sembri meglio opportuna, per cogliervi alcun aspetto della vita in quegli anni, così remoti anche dalle nostre immaginazioni.

I

Accanto ai massicci palagi di pietra, sicuri come fortezze, su cui si levavan fiere le torri merlate; nelle vie strette e tortuose dove la grand'ombra di quelle moli incombeva triste e paurosa, sorgevano le casette piccole e basse, con il tetto coperto di paglia, con le impannate alle finestre, con le grosse imposte di legno, sempre esposte ai pericoli del fuoco; onde Paolo di Ser Pace da Certaldo consigliava tener sempre pronte “dodici saccha grandi buone per sgombrare quando fuoco fosse ne la vicinanza tua o presso a te o a casa tua„ e uno “canape che sia lungo dal tetto in terra per poterti calare da ogni finestra„3. Le vie, piene di polvere, eran spazzate dall'acqua che correva come un fiumicello4 dentro e fuori il rigagnolo, dove s'ingrufolavano, scrive il Sacchetti, quegli animali che sant'Antonio avea in i protezione, ed entravan poi nelle case altrui a portarvi il disordine e lo scompiglio5. Nè quelle case erano un modello di pulizia: si spazzavano una sola volta la settimana, il sabato, e negli altri giorni le immondezze si cacciavano sotto il letto, dove era d'ogni cosa un poco: bucce di frutta, torsoli, ossa, pelli scorticate, polli vivi, oche gracchianti e abbondanza di ragnateli. Erano modeste dimore di gente che si contentava del poco e più che ai conforti e godimenti della vita badava ai guadagni: gente antica, se di buona stirpe, che passava la vita uccellando e cacciando piuttosto in contado, nelle proprie tenute, che in città; gente nuova che nelle arti e nella mercatanzia cercava far la roba. L'avolo di Messer Lapo da Castiglionchio, che avea sua abitazione in sulla porta di Messer Riccardo da Quona, là dalle Colonnine, usava far serrare la porta della città a una vecchia serva, buona e lealissima, che glie ne riponeva le chiavi nella sua camera6.

Firenze intanto cresceva man mano che aumentava la proprietà de' cittadini. Le vecchie case di legno o coi tetti di paglia eran spesso distrutte dal fuoco. Tutta la città si commoveva e tutta la gente, ad ogni incendio che divampasse, era sotto l'arme e in gran guardia7. Anche la Signoria, per abbattere con minor spesa le case dei condannati, usava darle alle fiamme e poi pagare i danni degl'incendi che si propagavano8.

E come incendi avvampavano le passioni: le vendette, le risse, le turbolenze tingevan di sangue le vie; e le paci tra gli avversi consorti si celebravano con feste e conviti. Il Comune “fiero e in caldo e signoria„ raddoppiava le forze; e debellati i nemici esterni, “i mercanti della città vincitrice guidavano, nuova maniera di trionfo, i loro muli, carichi de' panni di Calimala e delle seterie di Por Santa Maria, attraverso a' monti e a' piani poc'anzi battuti dalle cavalcate e da' soldati de' loro eserciti; portavano l'oro e l'ingegno fiorentino nelle città, sotto alle cui mura avevano ondeggiato, fra le armi, le libere insegne di questo popolo grande„9.

II

Mercato vecchio era il cuor di Firenze; e pareva allora la più bella piazza del mondo10. Chi ne legga le lodi nel capitolo di Antonio Pucci, chi ne cerchi i fatti di cronaca quotidiana nelle novelle di Franco Sacchetti, può avere un'imagine di quella vita cittadina che si contentava di così piccola scena. Quello, il vero emporio d'ogni commercio, il ritrovo de' bottegai, de' commercianti, degli oziosi, de' giuocatori, de' villani, de' medici, degli speziali, de' malandrini, delle fantesche, de' gentiluomini, de' poveri, delle trecche, dei rivenduglioli, delle brigate allegre e spendereccie. Quivi robe d'ogni genere e sorte: le carni fresche, le frutta, i formaggi, i camangiari, l'uccellame, i pannilini, la cacciagione, i fiori, le stoviglie, le botti, la mobilia usata. I monelli, anche allora terribili, vi stanno come in casa loro: i grossi topi vi fan carnevale; la gente vi trae da ogni parte. Ogni giorno si leva qualche romore: un cavallaccio s'imbizzarrisce per una ronzina, e tutti gridando accorr'uomo, la Piazza de' Signori s'empie di fuggiaschi, serrasi il Palagio, armasi la famiglia, anche quella del Capitano e dell'Esecutore, e questi per la paura nascondesi sotto il letto, e, quetato il tumulto, n'esce fuori coperto di ragnateli; due muli beccati da un corvo cominciano a tempestare; saltan sui deschi, si serrano le botteghe e nasce grande contesa fra i lanaiuoli e i beccai per i danni fatti da quelle bestie furiose.

Ma talvolta accadono anche serie questioni: i barattieri, tenitori di giuoco, vengono alle mani:

 
E vedesi chi perde con gran soffi
Bestemmiar, con la mano alla mascella
E ricevere e dar di molti ingoffi.
 
 
Ed allor vi si fa con le coltella,
Ed uccide l'un l'altro, e tutta quanta
Si turba allora quella piazza bella.
 

Si rinnova la scena raffigurata in un affresco del monastero di Lecceto, vicino a Siena. I tre dadi caddero sulla tavola in modo che un de' giuocatori è perdente. Egli sorge in piedi, esacerbato da quel colpo dell'avversa fortuna, e afferra il vincitore per la gola, stendendo il braccio. E l'altro, fattosi pallido per l'ira e lo spavento, si cerca indosso l'arme vendicatrice. La bestemmia prorompe sui labbri de' contendenti; le grida degli astanti, delle donne, de' fanciulli echeggian paurose: “Accorr'uomo, accorr'uomo!„ – La folla indietreggia sbigottita, e quando l'Esecutore arriva – sempre tardo – co' suoi famigli, la vittima è a terra, distesa in un lago di sangue.

III

Questi i drammi, i “fatti diversi„ d'allora, che turbavano la pace della semplice vita di quei nostri bisavoli. Perchè, la novella borghese, che tenea l'ufficio delle odierne gazzette, rare volte ci narra queste scene crudeli. Piuttosto si piace di raccontarci le beffe, le burle, onde allegravasi il popolo motteggevole; perenne argomento di queti ragionari, al canto del fuoco, presso gli alari dei grandi camini, sotto la cui cappa annerita raccoglievansi le famiglie, prima che sonasse l'ora di spegnere i lumi, quando chi andava a letto “il sezzaio11 erasi accertato fossero ben turate le botti„ e “l'uscio e le finestre serrate„.

Non parea vero di ridere, di scordare le paure dell'oltremondano, onde gli spiriti erano stati depressi: e già l'incredulità de' nuovi tempi cominciava a metter fuori le corna, burlandosi de' cherici, e un tantino de' miracoli e di molte altre imposture. I motteggiatori, i burlevoli, che d'altrui si prendevan sollazzo e cercavano gabbare il prossimo e il mondo, si dicevano “nuovi uomini„ e “nuove cose„ le loro malizie. I deschi e le botteghe di Mercato Vecchio, i fondachi di Calimala, le loggie che sorgevano allora presso i palagi, dove la gente stava sui banchi a conversare, echeggiavano di fresche risate argentine; cui rispondevano i crocchi femminili, bisbiglianti sulle porte di casa. Gli artisti, o come li chiamavan gli artefici, erano i più sottili architettori di coteste burle ingegnose, immaginate fra una pennellata e un colpo di stecca. E ne durò la memoria molti anni, tanto che il Vasari parecchie ne raccolse nelle sue Vite, di quelle che i novellieri non avevan consegnate alle lor cronache cittadine.

“Sempre fu che tra' dipintori si son trovati di nuovi uomeni„12 scrive il Sacchetti; e Bonamico Buffalmacco immortalato nel

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