Читать бесплатно книгу «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2» Эдварда Гиббона полностью онлайн — MyBook

CAPITOLO XII

Condotta dell'esercito e del Senato dopo la morte di Aureliano. Regni di Tacito, di Probo, di Caro e dei suoi figli

La condizione degl'Imperatori Romani era tanto infelice, che qualunque si fosse la loro condotta, incontravano ordinariamente il medesimo fato. La vita dissoluta o virtuosa, severa o indulgente, indolente o gloriosa, menava egualmente ad un intempestivo sepolcro; e quasi ogni regno finisce con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti e di stragi. La morte di Aureliano, per altro, è considerabile per le straordinarie sue conseguenze. Le legioni ammirarono, piansero, e vendicarono il vittorioso lor condottiere. L'artifizio del perfido di lui segretario fu discoperto e punito. I cospiratori delusi seguirono le funerali esequie del loro oltraggiato Sovrano con sincero, o ben simulato pentimento, e si sottomisero all'unanime risoluzione dell'ordine militare, la quale fu significata con la seguente lettera. «I valorosi e felici eserciti al Senato ed al Popolo di Roma. Il delitto di un solo e il fallo di molti ci hanno privato dell'ultimo Imperatore Aureliano. Compiacetevi, venerabili Signori e Padri, di collocarlo nel numero degli Dei, e d'indicarci quel successore, che voi giudicherete degno della Porpora Imperiale. Niuno di quelli, che, o per colpa o per caso, hanno contribuito alla nostra perdita, regnerà mai sopra di noi97.» I Senatori Romani udirono senza sorpresa, che un altro Imperatore era stato assassinato nel suo campo; si rallegrarono internamente della caduta di Aureliano; ma la modesta e rispettosa lettera delle legioni, quando fu dal Console comunicata alla piena assemblea, riempì tutti della più grata sorpresa. Essi liberamente largirono alla memoria del loro estinto Sovrano quegli onori, che il timore e forse la stima avrebbero estorti. Renderono alle fedeli armate della Repubblica, che conservavano un sentimento sì giusto della legittima autorità del Senato nella scelta d'un Imperatore, quei ringraziamenti, che la gratitudine potea inspirare. Ma non ostante questo invito sì lusinghiero, i più savj dell'assemblea evitarono di esporre al capriccio di una moltitudine armata la lor salvezza e la lor dignità. La forza delle legioni era, per vero dire, un pegno della loro sincerità, perchè quelli che possono comandare, di rado sono ridotti alla necessità d'infingere; ma poteva egli naturalmente sperarsi, che un improvviso pentimento correggesse l'inveterato costume d'interi ottant'anni? Se fossero ricaduti i soldati nelle loro solite sedizioni, la loro insolenza poteva disonorare la maestà del Senato, e divenir fatale alla scelta di lui. Simili motivi dettarono un decreto, col quale l'elezione del nuovo Imperatore si rimetteva ai suffragi dell'ordine militare.

La contesa, che quindi nacque, è uno dei più attestati, ma meno verisimili, eventi della storia del Genere Umano98. Le truppe, quasi fossero stanche di esercitare la lor forza, fecero nuovamente le loro istanze al Senato, perchè rivestisse della Porpora Imperiale uno del suo proprio corpo. Il Senato persistè sempre nel suo rifiuto, e l'esercito nella sua richiesta. La proposizione fu almen per tre volte scambievolmente offerta e ricusata, e mentre l'ostinata modestia di ciascheduna delle due parti era risoluta di ricevere un Sovrano dalle mani dell'altra, passarono insensibilmente otto mesi: mirabil periodo di tranquilla anarchia, durante il quale il mondo Romano rimase senza un sovrano, senza un usurpatore, e senza pure una sedizione. I Generali ed i Magistrati eletti da Aureliano continuarono ad esercitare le ordinarie loro funzioni, e si osserva che un Proconsole dell'Asia fu la sola riguardevol persona, rimossa dalla sua carica in tutto il corso dell'interregno.

Un quasi simile, ma molto meno autentico, avvenimento si suppone accaduto dopo la morte di Romolo, nella vita e nel carattere del quale si ritrova qualche somiglianza con Aureliano. Il trono restò vacante per dodici mesi, sino all'elezione di un filosofo Sabino; e la pubblica tranquillità si mantenne nel modo istesso, per l'unione dei diversi ordini dello Stato. Ma nei tempi di Numa e di Romolo, l'autorità dei Patrizj teneva a freno le armi del popolo; e facilmente si conservava in una società virtuosa e ristretta la bilancia della libertà99. L'Impero Romano nella sua declinazione, molto diverso dalla sua infanzia, si trovava in tutte quelle circostanze, che potevano allontanare da un interregno la speranza dell'ubbidienza e dell'armonia; e queste circostanze erano una Capitale immensa e tumultuosa, una vasta estensione di dominio, la servile eguaglianza del dispotismo, un'armata di quattrocentomila mercenari, e l'esperienza delle frequenti rivoluzioni. Ma non ostanti tutti questi incentivi, la disciplina e la memoria di Aureliano contennero tuttavia la sediziosa indole delle truppe, non meno che la dannosa ambizione de' lor condottieri. Il fiore delle legioni rimase accampato sulle rive del Bosforo, e l'insegna Imperiale mettea rispetto ai meno potenti campi di Roma e delle Province. L'ordine militare parve animato da un generoso benchè passeggiero entusiasmo; ed è credibile che i pochi veri patriotti coltivassero la rinascente amicizia tra l'esercito ed il Senato, come l'unico espediente capace di ristabilir la Repubblica nella sua primiera bellezza e nell'antico vigore.

Ai venticinque di Settembre, quasi otto mesi dopo l'uccisione di Aureliano, il Console adunò il Senato, e riferì l'incerta e pericolosa situazione dell'Impero. Insinuò leggiermente, che la precaria fedeltà dei soldati dipendeva da un solo istante e dal minimo accidente; ma rappresentò con la più convincente eloquenza i vari pericoli che seguitar potevano ogni ulterior dilazione nella scelta di un Imperatore. Si erano, diceva egli, già ricevute notizie, che i Germani aveano passato il Reno, ed occupate alcune delle più forti e più opulente città della Gallia. L'ambizione del Monarca Persiano teneva l'Oriente in continui timori: l'Egitto, l'Affrica e l'Illirico erano esposti all'armi straniere e domestiche, e la Siria incostante avrebbe fin preferito lo scettro di una femmina alla santità delle leggi Romane. Rivoltosi quindi il Console a Tacito, il primo tra i Senatori100, richiese il parere di lui sull'importante oggetto di un candidato degno del trono vacante.

Se il merito personale è da preferirsi ad una casuale grandezza, stimeremo l'origine di Tacito più nobile veramente di quella dei Re. Vantava egli la sua discendenza da quello Storico filosofico, i cui scritti istruiranno ancora le ultime generazioni degli uomini101. Il Senatore Tacito era nell'età di settantacinque anni102. Le ricchezze e gli onori adornavano il lungo corso della innocente sua vita. Avea due volte occupata la dignità consolare103, e godeva con eleganza e sobrietà l'ampio suo patrimonio fra i quattro e i sei milioni di zecchini104. L'esempio di tanti Principi da lui o stimati o sofferti, dalle vane follie di Elagabalo fino all'utile rigore di Aureliano, lo aveano ammaestrato a valutar giustamente i doveri, i pericoli, e le tentazioni di quel sublime lor grado. All'assiduo studio del suo immortale antenato egli doveva la conoscenza della Romana costituzione e dell'umana natura. La voce del popolo avea già nominato Tacito come il cittadino più degno dell'Impero105. Giunto ai suoi orecchi questo ingrato rumore, lo indusse a ritirarsi in una delle sue ville nella Campania. Avea egli passato a Baia due mesi in una tranquillità deliziosa, quando con ripugnanza ubbidì ai comandi del Console di riprendere l'onorevol suo posto nel Senato, e di assistere co' suoi consigli la Repubblica in tale importante occasione.

Si alzò Tacito per parlare, quando da ogni lato dell'assemblea fu salutato coi nomi di Augusto e d'Imperatore. «Tacito Augusto, gli Dei ti conservino: noi ti eleggiamo per nostro Sovrano, affidando alla tua cura la Repubblica, e il Mondo. Accetta l'Impero dall'autorità del Senato. Esso è dovuto al tuo grado, alla tua condotta, ai tuoi costumi.» Calmato appena il tumulto delle acclamazioni, Tacito tentò di evitare il pericoloso onore, e di esprimere la sua sorpresa, che si eleggesse un uomo vecchio ed infermo per succedere al marzial vigore di Aureliano. «Sono elleno membra queste, Padri coscritti, atte a sostener il peso dell'armi, o ad eseguire gli esercizi del campo? La varietà dei climi, e le asprezze della vita militare presto opprimerebbero un debol temperamento, che si mantien solamente col più delicato riguardo. Bastano appena l'esauste mie forze a soddisfare ai doveri di Senatore: quanto insufficienti sarebbero per le ardue fatiche della guerra e del governo! Potete voi sperare che le legioni rispettino un debol vecchio, che ha passati i suoi giorni all'ombra della pace e del ritiro? Vorreste voi ch'io dovessi una volta piangere la favorevole opinion del Senato?106»

La ripugnanza di Tacito, che forse era ingenua, fu combattuta dalla affettuosa ostinazione del Senato. Cinquecento voci ripeterono unite con eloquente confusione, che i Principi più grandi di Roma, Numa, Traiano, Adriano, e gli Antonini, erano ascesi al trono in età molto avanzata, che l'oggetto della loro scelta era lo spirito, non il corpo, il Sovrano, non il soldato, e solamente esigevano da lui, che con la sua prudenza regolasse il valore delle legioni. Queste pressanti e tumultuose istanze furono secondate da un più regolar discorso di Mezio Falconio, che accanto a Tacito sedeva tra i Consolari. Egli rammentò all'assemblea i mali, che Roma avea sofferti dai vizi degl'indocili e capricciosi giovani Principi, si congratulò col Senato per l'elezione di un virtuoso e sperimentato Senatore, e con maschia, ma forse interessata, libertà esortò Tacito a rammentarsi i motivi del suo innalzamento, ed a scegliersi un successore non nella sua propria famiglia, ma nella Repubblica. Fu il discorso di Falconio avvalorato da una generale acclamazione. L'eletto Imperatore si sottomise all'autorità della sua patria, e ricevè il volontario omaggio de' suoi compagni. La condotta del Senato fu confermata dal consenso del Popolo Romano e dei Pretoriani107.

Il governo di Tacito non fu diverso dalla passata sua vita e da' suoi principj. Creatura riconoscente del Senato, egli considerò quel Concilio della Nazione come autore delle leggi, e sè medesimo come soggetto all'autorità di quelle108. Procurò di saldare le molte ferite, che l'orgoglio Imperiale, la discordia civile e la violenza militare aveano portate alla costituzione, e di ristabilire almeno l'immagine dell'antica Repubblica, com'era stata conservata dalla politica di Augusto, e dalle virtù di Traiano e degli Antonini. Non sarà inutile di enumerare alcune delle più importanti prerogative, che parve aver ricuperate il Senato per l'elezione di Tacito109. I. Di affidare ad uno dei suoi membri, sotto il titolo d'Imperatore, il general comando degli eserciti, ed il governo delle Province di frontiera. II. Di fissare la lista o, come allor si chiamava, il Collegio dei Consoli. Questi erano dodici, che, succedentisi a due a due per ogni bimestre, rappresentavano per tutto l'anno la dignità di quell'antica magistratura. Esercitava il Senato nella scelta dei Consoli la sua autorità con una libertà così indipendente, che non ebbe alcun riguardo ad una irregolar istanza dell'Imperatore pel suo fratello Floriano. «Il Senato» (esclamò Tacito con un nobil trasporto da cittadino) «conosce il carattere di quel Principe, ch'egli ha scelto.» III. Di destinare i Proconsoli ed i Presidenti delle Province, e di conferire a tutti i Magistrati la loro civile giurisdizione. IV. Di ricever gli appelli per l'uffizio intermedio del Prefetto della Città da tutti i tribunali dell'Impero. V. Di dar forza e validità coi suoi decreti agli editti Imperiali ch'esso approvava. VI. A questi diversi rami di autorità si può aggiungere qualche sopraintendenza alle finanze, giacchè anche sotto la severa dominazion di Aureliano aveva il Senato la facoltà d'impiegare in altr'uso una parte dell'entrate, destinate al servizio pubblico110.

Furono immediatamente spedite lettere circolari a tutte le principali città dell'Impero, Treveri, Milano, Aquileia, Tessalonica, Corinto, Atene, Antiochia, Alessandria, e Cartagine, per esigere la loro ubbidienza, ed informarle della felice rivoluzione, che avea restituita al Senato Romano l'antica sua dignità. Due di queste lettere si conservano ancora. Abbiamo altresì due ben singolari frammenti della privata corrispondenza dei Senatori in questa occasione. Mostrano la più eccessiva gioia, e le più illimitate speranze. «Ponete giù la vostra indolenza» (così scrive uno dei Senatori al suo amico) «ed uscite dal vostro ritiro di Baia e di Pozzuolo. Restituitevi alla Città ed al Senato. Roma fiorisce, e tutta insieme fiorisce la Repubblica. Grazie al romano esercito, veramente Romano, abbiam finalmente ricuperata la nostra giusta autorità, lo scopo di tutti i nostri desiderj. Noi riceviamo gli appelli, destiniamo i Proconsoli, facciamo gl'Imperatori; forse ancora noi li potremo tenere in freno: all'uomo saggio una parola è bastante.111» Restarono per altro sconcertate ben presto queste alte speranze, nè di fatto era possibile, che le armate, e le province lungamente ubbidissero all'imbelle ed effeminata nobiltà romana. Al più leggiero urto rimase atterrato il mal sostenuto edifizio della loro ambizione e del loro potere. La spirante autorità del Senato mandò una subita luce, balenò per un momento, e si estinse per sempre.

Ma tutto ciò ch'era accaduto in Roma, non sarebbe stato che una rappresentazione teatrale, se non veniva ratificato dalla forza più reale delle legioni. Lasciando godere ai Senatori il loro fantasma di libertà e di ambizione, andò Tacito al campo di Tracia, ed ivi fu dal Prefetto del Pretorio presentato alle truppe adunate, come il Principe da loro richiesto, e dal Senato concesso. Appena tacque il Prefetto, che l'Imperatore parlò ai soldati con eloquenza e con dignità. Soddisfece alla loro avarizia con una liberale distribuzion di danaro, sotto nome di paga e di donativo. Egli acquistò la stima loro con un'animosa dichiarazione che sebbene la sua età lo rendesse inabile alle imprese militari, pure i suoi consigli non sarebbero indegni di un Generale Romano, del successore del valoroso Aureliano112.

Nel tempo che quest'Imperatore faceva preparativi per una seconda spedizione in Oriente, egli aveva trattato con gli Alani, popoli della Scizia, i quali avevano piantate le loro tende nelle vicinanze della Palude Meotide. Quei Barbari, allettati con promesse di doni e di sussidj, si erano obbligati d'invadere la Persia con un numeroso corpo di cavalleria leggiera. Furono essi fedeli al loro impegno; ma quando giunsero alla frontiera Romana, era già morto Aureliano, il progetto della guerra Persiana era almeno sospeso, ed i Generali, che, durante l'interregno, esercitavano un incerto potere, non erano preparati nè a riceverli, nè ad arrestarli. Provocati da un tal contegno, ch'essi riguardavano come perfido e vile, ricorsero gli Alani al loro proprio valore per avere e paga e vendetta; e marciando con la solita celerità dei Tartari, presto si sparsero per le Province del Ponto, della Cappadocia, della Cilicia, e della Galazia. Le legioni, che dalle opposta rive del Bosforo potevan quasi discernere le fiamme delle città e dei villaggi, stimolavan con impazienza il lor Generale a condurle contro quegli invasori. Tacito si diportò convenientemente alla sua età ed alla sua posizione. Mostrò chiaramente ai Barbari la fedeltà e la potenza dell'Impero. Gran parte degli Alani, pacificati dalla puntuale soddisfazione degl'impegni, che avea con essi contratti Aureliano, renderono il loro bottino ed i prigionieri, e quietamente si ritirarono nei loro deserti di là dal Fasi. Agli altri, che ricusarono la pace, fece il Romano Imperatore in persona con buon successo la guerra. Secondato da un esercito di valorosi ed esperti veterani, ei liberò in poche settimane le Province dell'Asia dal terrore della invasion degli Sciti113.

A. D. 276

Ma la gloria e la vita di Tacito furono di poca durata. Trasportato nel colmo del verno dalla dolce solitudine della Campania ai piedi del monte Caucaso, fu egli oppresso dagl'insoliti travagli di una vita militare. Le cure dell'animo aggravarono le fatiche del corpo. L'entusiasmo della pubblica virtù avea per un tempo sedate le feroci ed interessate passioni dei soldati. Scoppiarono queste ben presto con raddoppiata violenza, ed infuriarono nel campo e nella tenda perfino del vecchio Imperatore. Il suo dolce e moderato carattere non serviva che ad inspirare disprezzo, ed egli era continuamente tormentato dalle fazioni, che sedar non poteva, e da richieste impossibili a soddisfarsi. Non ostanti le lusinghiere speranze che Tacito avea concepite di rimediare ai pubblici disordini, egli fu presto convinto, che la sfrenatezza dell'esercito deprezzava il debol ritegno delle leggi; e il dolore di veder volti in male i suoi disegni, unito all'altre angustie, affrettò gli ultimi suoi momenti. Si dubita se i soldati imbrattassero le loro mani nel sangue di questo innocente Principe114

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