– Sta tranquillo! – feci io – ; non medito; non mi annoio: mi riposo. L'aria di Valdigorgo basterà per guarire un po' di stanchezza…
– Sicuro che dovrebbe bastare!..; ma intanto il tuo muso da Spinoza offende Valdigorgo, offende questo paradiso terrestre, offende me!
Mino chiese: – Babbo, chi è Spinoza?
Claudio lo conosceva solo di nome; tuttavia rispose pronto e feroce:
– È un bravomo senza giudizio come Sivori! Se diventassi uno Spinoza anche tu, ti strozzerei! E voi, – aggiunse rivolto alle figlie – perchè dimenticate la consegna di non lasciare a Sivori un minuto di quiete? Tormentatelo, talpe!; fategli tutte le birichinate che vi verranno in mente!..
Marcella si scusò dicendo che temevano disturbarmi. Più ardita, Ortensia mi fissò un istante e promise che lei e Mino mi avrebbero scovato da per tutto e me ne avrebbero fatte delle belle.
La mattina dopo mi incamminavo al di là del cancello per la via montana a cercar un nuovo e più sicuro nascondiglio. Ma troppo tardi! Ortensia mi raggiunse di corsa.
– Andiamo a salutare Giovannin?
Andammo là, presso il muricciolo di fronte alla villa, dove ogni mattina Giovannino il cieco veniva, con lo sgabelletto sotto il braccio, l'organetto in una mano e il bastone nell'altra. Ivi, accanto al muro, sedeva ad aspettare l'elemosina mentre riprendeva dallo sfiatato strumento l'«addio, mia bella, addio!»; e intanto borbottava e sorrideva, nessuno sapeva a chi.
Per gli occhi aperti e immoti non vedevano le spente pupille; non aspetto di cielo e di campagna o di persona tornava alla memoria di quel povero diavolo. Giovannin sorrideva, ma d'un sorriso cieco anch'esso, come per una insistente contrazione delle labbra, o per ebetudine; finchè non sopravvenivano i monellacci. Allora, giù l'organetto e su il bastone! S'alzava in piedi, ad armarsi anche dello sgabelletto, quando i nemici l'assalivano troppo da presso; e alle beffe rispondeva con parole oscene, che anch'egli aveva apprese. Senza dubbio però quell'omicciattolo dalle gambe rachitiche e storte, dalla testa enorme, su cui non bastava il cappello elemosinato, dalla fronte nera di schianze per botte contro i muri, dal dorso informe nel gabbano non proprio, dai piedi perduti in mostruose scarpe, quel miserabile aveva talvolta consolazioni per le quali sorrideva in altro modo, con un barlume di pensiero e di sentimento.
Ortensia gli chiese:
– Sai chi sono?
Subito egli, tutt'allegro:
– Ortensia di Claudio!
Fin da bambine Ortensia e Marcella gli recavano i dolci e le frutta.
– Mi vuoi bene?
– Come a Dio!
La ragazza ruppe in una risata esclamando: – Troppo! troppo! – Ma quel troppo rispondeva a una elemosina più copiosa del solito.
Scambiate poche altre parole col cieco, Ortensia mi chiese:
– Va a spasso?
– Sì.
– Buona passeggiata!
Nient'altro ella disse; non dimostrò intenzione d'accompagnarmi, nè fece alcun accenno alle raccomandazioni paterne della sera innanzi. Fosse nel suo contegno delicatezza spontanea, o suggerita dalla madre, le scorsi in viso il sincero augurio che la passeggiata mi facesse bene. Quasi che camminando io potessi fuggir da me stesso!; quasi che io potessi non riferir la mia miseria a ogni cosa che trattenesse il mio sguardo, a ogni persona che incontrassi! Mi confrontavo a Giovannino. Ero forse men cieco di lui io che vedevo senza lume di ragione l'infinito universo e nell'infinito universo vedevo senza un perchè l'atomo del mio corpo, l'attimo della mia esistenza? Ma Giovannin almeno or s'adirava, or sorrideva. Io invece non sentivo nulla, più nulla! Oh, non potendo amare, se avessi potuto odiare! Odiare con la voluttà del despota che uccide e distrugge, con lo scherno del misantropo che nega ai credenti e agli illusi la possibilità d'esser felici! Odiare il gregge matto che pasce e si riproduce nei pascoli opimi o fra i triboli, e bela invocazioni alla felicità! Odiare l'umanità che trovò il telegrafo e perdè Dio; che rintraccia bacilli mortiferi e patisce il raffreddore; che proclama fratellanza e perfeziona la guerra; che va in chiesa e s'uccide per amore; che scrive poemi e pute!
Ma neanche odiare potevo! Nulla! Per me al mondo non c'era più nulla! Solo quel vuoto enorme entro di me… – Buona passeggiata! – Voleva forse l'augurio che divagassi lo sguardo per i noti luoghi e ricuperassi altri ricordi?
Ebbene: mentre salivo alla strada dell'antico convento, sulla porta della prima casupola, trovai, di poco mutata, la pallida fanciulletta che un giorno, con gli occhi nel mistero, m'aveva dimandato: – Li fa la gatta i gattini?
Ed ecco da questo ricordo derivarne, non so come, un altro: di una faccia puerile anche più pallida. Era tra le memorie della mia gaia vita di studente l'impressione che provai un giorno, quando su la tavola anatomica vidi un compagno spolpare le gambe d'un bambino. Tranquillamente m'ero esercitato in più d'un cadavere… Eppure la vista di quel bambino… che impressione! Or dunque ascoltai se questo ricordo mi rinnovasse il senso penoso di quell'impressione antica. No. Rimase un ricordo del tutto mentale; non sentivo più nulla; e la pallida ragazzetta, riconoscendomi, stupì che non le dicessi nulla.
– Buona passeggiata! – Poco oltre, a una seconda casupola, intravvidi il calzolaio socialista, che, un giorno, alla mia richiesta se pensasse di non dover più tirar lo spago nella sua repubblica sociale, aveva tratto dalle ginocchia una logora ciabatta, e mostrandomela aveva risposto:
– Invece che rappezzare di queste, cuciremo scarpe nuove!
Così il ciabattino concepiva le sorti progressive dell'umanità! Ma a rivederlo, ecco un altro ricordo: nelle sorti progressive dell'umanità io ci avevo creduto più di lui! Una fede più grande io avevo avuta!
Ah i bei tempi quando dallo studiare il male in questo o in quell'uomo ero risalito a studiar la vita di tutti gli uomini; dalla medicina alla storia, dalla storia all'antropologia, alla biologia, alla psicologia, etcetera, e avevo distrutto dei e religioni, filosofi e sistemi, per conquistare positivamente Dio!
Bei giorni anche quando avevo visto morire i miei con sereno dolore, con nobile rassegnazione alla necessità della vita!
Bei giorni quando la morte non mi faceva ancora ombra all'amore e delle donne amate per brev'ora non scorgevo lo scheletro, non mi chiedevo perchè e come era viva la carne che ne rivestiva lo scheletro!
Chi mi avrebbe mai detto in quei tempi di fede: Verrà il dì che proverai in te un male a cui non basteranno le docce, da te consigliate adesso a chi non ha la tua fede! – Altro che nervi esausti! Il cuore, il cuore era esaurito; e non di sangue; e a tal punto che…
Meglio ridere!
Al bivio presi la via del monte. Ci rividi Martino, cenciaiuolo e merciaiuolo, che scendeva con la biroccia e l'asino. Dei due, chi mostrava più segni del tempo trascorso nella mia assenza, non era l'asino, era Martino. Aveva la barba bianca e camminava curvo; non come una volta a lato alla biroccia, ma dietro. L'asino invece, tale e quale: nel pelo, nell'andatura, in tutto. E dei tre, il cenciaiuolo, l'asino ed io, chi più invecchiato? Io! Ma che cosa mai aveva meritato o demeritato dalla sorte in quei due anni l'onesto Martino? Così invecchiato mi appariva, che non potei non interrogarlo.
– Nessuno al mondo è felice come voi! – io gli dissi per ridere, per divagarmi.
Mi guardò e rise lui per rispetto; chè alle canzonature degli eguali rispondeva in altro modo.
– No? – continuai. – Vostra moglie non sta bene?
– Bene; grazie a Dio.
– Foste ammalato voi?
– Grazie a Dio, nossignore.
– E l'asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?
– No, no! Il percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma… – sospirò.
– Calato il prezzo degli stracci?
Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.
– Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi…
Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a lungo. Quindi si sfogò:
– Le par poco, a lei, lavorar vent'anni, da casa a casa, a stentare il soldo? Consumare le gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per…
Io lo prevenni:
– Per aprir bottega!..
– Non è vita da cani questa?
A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l'ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un'ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz'aver avuto mai nè donna nè asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloria! la gloria!
Quanto all'asino…
Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l'asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:
– Solita vita, caro signore! – Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d'estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l'inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all'aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per ragioni sue intime, non meditate e non lamentate, delle asine in cui s'incontrasse: appena a primavera le salutava; ma d'un saluto fraterno, o d'un reciproco ingenuo poetico richiamo alla natura novella.
E poichè l'asino di Martino era anche utile al commercio e all'industria, forme e prove di progresso umano; poichè all'industria e al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo; poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma, secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l'asino, fra i tre il più sapiente era dunque l'asino e fra i tre il più asino ero dunque io!
Ridere?.. Ripensavo:
Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso, e seppi che non posso sapere…
Dall'asino, tutt'al più, posso apprendere che per vivere non importa sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!
– Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega…
Per me non c'era più alcuna fortuna, alcuna speranza!
Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!
Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti – mio padre e mia madre!.. – tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?
Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!
– Buona passeggiata! – Proseguivo per l'erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al passar del liquido e della frescura.
Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò con un forte: – Ah!.. – E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.
A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.
Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze – le spasmodie romantiche han stancato il mondo, – nè per dilettantismo letterario – bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! – No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.
Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più chiaramente a quel che avevo.
Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui – avrei detto – ci sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica», c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. – Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.
Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo… – «il sapere» disse Shakespeare «è l'ala con cui si sale al Cielo» – , e immaginatelo quest'uomo precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza… Il meglio della mia vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. Nel nulla!
Forse fu ingiusta l'imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere della scienza, non lo fui mai, io più spaventosamente d'ogni altro dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito; non sentivo più nulla. Ecco perchè non giudicavo quest'apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».
Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l'orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c'era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l'anima sopravvive…; e da quel tentativo di confermare con la scienza l'antica fede mi era rimasta l'apprensione dell'al di là. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l'inconoscibile.
Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com'era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d'un'entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni…
Eppoi… Eppoi, tiriamo innanzi!
Tra i pochi che venivano alla villa Moser c'era per me una sola persona nuova; l'ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era divenuta una delle più rinomate nell'Italia settentrionale; a vigilarne l'andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand'egli si fu addossato altre imprese.
E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace almeno in casa sua, nell'asilo del suo riposo, sebbene anche qui piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.
Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù. Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d'amicizia e di consuetudine. Ma nell'infermità dei miei tristissimi giorni come eran noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!
Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a cui il mondo serve di sfondo e cornice per la loro figura, per la loro apparenza. Pensionato d'uno di quegli uffici che rendon l'uomo uniforme, preciso e sciocco come un regolamento, a sessant'anni poco o nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno; unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.
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