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Jack Mars
IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO

Jack Mars

Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.

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LIBRI DI JACK MARS

SERIE THRILLER DI LUKE STONE
A OGNI COSTO (Libro #1)
IL GIURAMENTO (Libro #2)

SERIE SPY THRILLER KENT STEELE
AGENTE ZERO (Libro #1)
OBIETTIVO ZERO (Libro #2)

“La vita dei morti è riposta nella memoria dei vivi.”

—Marcus Tullius Cicero

CAPITOLO UNO

La prima lezione della giornata era sempre la più difficile. Gli studenti entrarono barcollando nell'aula magna della Columbia University come irrequieti zombie dallo sguardo spento, ottenebrati da nottate passate sui libri, postumi di sbronze, o una combinazione delle due. Portavano pantaloni di tuta e t-shirt del giorno prima, e stringevano tazze da asporto di cappuccini alla soia o caffè artigianali, o qualunque altra cosa piacesse bere ai ragazzi in quel periodo.

Il lavoro del professor Reid Lawson era insegnare, ma capiva che la mattina serviva qualcosa di intenso per svegliare gli studenti, che stimolasse la mente, in aggiunta alla caffeina. Lawson diede ai ragazzi un momento per trovare i propri posti e per mettersi comodi, mentre si toglieva il cappotto sportivo di tweed e lo drappeggiava sullo schienale della sedia.

"Buon giorno," disse ad alta voce. L'annuncio fece sobbalzare diversi studenti, che alzarono di scatto lo sguardo come se si fossero resi conto solo allora di essere arrivati in classe. "Oggi parleremo di pirati."

Quella frase gli fece guadagnare l'attenzione dell'aula. Diverse paia d'occhi si focalizzano su di lui, battendo le palpebre nel mezzo della nebbia della privazione del sonno e cercando di capire se avesse davvero detto "pirati" o meno.

"Quelli dei Caraibi? " scherzò uno studente nella fila davanti.

"Del Mediterraneo, in realtà," lo corresse Lawson. Cominciò ad aggirarsi lentamente con le mani giunte dietro la schiena. "Quanti di voi hanno seguito il corso del professor Truitt sugli antichi imperi?" Circa un terzo della classe sollevò la mano. "Bene. Allora sapete che l'Impero Ottomano è stato una potenza mondiale per, oh, circa seicento anni. Ciò che forse non sapete è che i corsari ottomani, o come sono noti, i pirati barbareschi, imperversarono per tutto il mare nella maggior parte di questi periodo, dalle coste del Portogallo, attraverso lo Stretto di Gibilterra, fino al Mediterraneo. Che cosa credete che volessero? Qualcuno? So che siete vivi, là in fondo."

"Soldi?" chiese una ragazza in terza fila.

"Tesori, " disse lo studente davanti.

"Rum!" Arrivò un grido da uno studente in fondo all'aula, provocando una risata nel resto della classe. Anche Reid sorrise. Dopo tutto la folla si era svegliata.

"Tutte buone idee," disse. "E la risposta è 'tutte quante'. Vedete, i pirati barbareschi prendevano principalmente di mira i vascelli mercantili europei, e gli rubavano tutto, e intendo proprio qualsiasi cosa. Scarpe, cinture, denaro, cappelli, beni vari, la nave stessa… E la sua ciurma. Si ritiene che nei due secoli dal 1580 al 1780, i pirati barbareschi abbiano catturato e schiavizzato più di due milioni di persone. Portavano i loro bottini nei loro regni Nord africani. Ed è andata avanti così per secoli. E cosa pensate che abbiano fatto le nazioni europee in risposta?"

"Hanno dichiarato guerra!" Gridò lo studente in fondo.

Una ragazza impacciata con gli occhiali dalla montatura di corno alzò leggermente la mano e chiese: “Stipularono un trattato di pace?”

“In un certo senso,” rispose Lawson. “Le potenze europee accettarono di pagare un tributo alle nazioni barbaresche, sotto forma di una grande quantità di denaro e beni. Sto parlando del Portogallo, della Spagna, della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Svezia e dei Paesi Bassi… tutte pagavano i pirati perché restassero alla larga delle loro navi. I ricchi diventarono più ricchi, e i pirati si tirarono indietro, in larga parte. Ma poi, nel tardo diciottesimo e diciannovesimo secolo, successe qualcosa. Si verificò un evento che sarebbe stato il catalizzatore della fine dei pirati barbareschi. Qualcuno vuole azzardare un’ipotesi?”

Nessuno aprì bocca. Sulla sua destra, Lawson notò un ragazzo che stava cercando sul cellulare.

“Signor Lowell,” disse. Il ragazzo scattò sull’attenti. “Qualche idea?”

“Uhm… è per via dell’America?”

Lawson sorrise. “Me la sta chiedendo o me lo sta dicendo? Dia con sicurezza le sue risposte, e il resto di noi almeno crederà che sa di cosa sta parlando.”

“È per via dell’America,” disse il ragazzo di nuovo, con più enfasi.

“Esatto! È colpa dell’America. Ma come sapete, all'epoca eravamo una nazione appena nata. L’America era più giovane della maggior parte di voi. Dovevamo creare rotte commerciali con l’Europa per promuovere la nostra economia, ma i pirati barbareschi iniziarono a prendere di mira le nostre navi. Quando ci lamentammo con loro, ci richiesero un tributo. Quasi non avevamo una tesoreria, men che meno dei tesori all’interno. Il nostro salvadanaio era vuoto. Che scelta avevamo? Che cosa potevamo fare?”

“Dichiarare guerra!” si alzò la voce familiare dal fondo della sala.

“Precisamente! Non avevamo altra scelta se non di dichiarare guerra. Ora, la Svezia stava già combattendo contro i pirati da un anno e insieme, tra il 1801 e il 1805, prendemmo il porto di Tripoli e catturammo la città di Derne, mettendo fine al conflitto.” Lawson si appoggiò al bordo della cattedra e strinse le mani davanti a sé. “Ovviamente, così sorvoliamo su molti dettagli, ma questa è una lezione di storia europea, non americana. Se ne avete l’occasione, dovreste leggere del tenente Stephen Decatur e la USS Philadelphia. Ma sto divagando. Perché stiamo parlando di pirati?”

“Perché i pirati sono fighi?” rispose Lowell, che ormai aveva messo via il cellulare.

Lawson ridacchiò. “Non posso darti torto. Ma no, non è questo il motivo. Stiamo parlando di pirati perché la guerra di Tripoli rappresenta qualcosa visto di rado negli annali della storia.” Si raddrizzò, guardando tutta l’aula e incontrando gli sguardi di numerosi studenti. Almeno in quel momento Lawson riusciva a vedere la luce nei loro occhi, segno che la maggior parte quella mattina era viva, se non proprio attenta. “Per centinaia di secoli, nessuno dei paesi europei si era opposto alle nazioni barbaresche. Era più semplice pagarle. Servì l’America, che allora era una barzelletta per la maggior parte del mondo sviluppato, a portare un cambiamento. Fu necessario un atto di disperazione di una nazione assurdamente e disperatamente disarmata per spostare le dinamiche di potere della rotta commerciale più importante del mondo. Ed è in questo che consiste la lezione.”

“Non si scherza con l’America,” provò a dire qualcuno.

Lawson sorrise. “Beh, sì.” Alzò un dito per aria sottolineare il concetto. “Ma soprattutto, che la disperazione e una completa mancanza di scelte possibili possono, e hanno portato nel corso della storia, ad alcuni dei maggiori trionfi che il mondo abbia visto. La storia ci ha insegnato, ancora e ancora, che non esiste un regime troppo grande da rovesciare, e nessun paese troppo piccolo o debole per poter fare la differenza.” Fece l’occhiolino. “Pensateci la prossima volta che vi sentite poco più di una briciola in questo mondo.”

Alla fine della lezione, c’era una netta differenza tra gli studenti stanchi e ciondoloni che erano entrati e il gruppo ridente e ciarliero che uscì dall’aula. Una ragazza dai capelli rosa si fermò alla sua cattedra mentre usciva e commentò: “Bel discorso, professore. Quale era il nome del tenente americano di cui ha parlato prima?”

“Oh, era Stephen Decatur.”

“Grazie.” Se lo annotò e corse fuori dall'aula.

“Professore?”

Lawson alzò lo sguardo. Era lo studente di prima fila. “Sì, signor Garner? Che cosa posso fare per lei?”

“Volevo chiederle un favore, se fosse possibile. Sto facendo domanda per un tirocinio al Museo di Storia Naturale, e uh, mi sarebbe utile una sua lettera di raccomandazione.”

“Certo, nessun problema. Ma lei non si sta laureando in antropologia?”

“Sì, ma uh, ho pensato che una lettera scritta da lei avrebbe avuto più peso, capisce? E, uhm…” Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle sue scarpe. “Questo è tipo, il mio corso preferito.”

“Il suo corso preferito finora.” Lawson sorrise. “Ne sarei felice. Gliela porterò domani, ah, in realtà stanotte ho un impegno importante a cui non posso proprio mancare. Che ne dice di venerdì?”

“Nessuna fretta. Venerdì andrà benissimo. Grazie, professore. Ci vediamo!” Garner uscì dall’aula, lasciando Lawson da solo.

Il professore si guardò intorno nella sala vuota. Quello era il momento che preferiva della giornata, la pausa tra una lezione e l’altra, in cui la soddisfazione per quella appena finita si mescolava all’anticipazione per quella che stava per iniziare.

Il suo telefono squillò. Era un messaggio da Maya. A casa per le 5:30?

, rispose lui. Non me lo perderei mai. L’’impegno importante’ di quella sera era la sera dei giochi a casa Lawson. Adorava trascorrere quei bei momenti insieme alle sue due ragazze.

Bene, scrisse a sua volta la figlia. Ho delle novità.

Che novità?

Più tardi, fu la sua risposta. Lui si accigliò davanti a quel messaggio vago. All’improvviso la giornata gli sembrò molto lunga.

*

Non appena la giornata di lavoro arrivò alla fine, Lawson riempì la tracolla, prese il pesante cappotto invernale e si diresse verso il parcheggio. Febbraio a New York era sempre gelido, e ultimamente era stato persino peggio. Persino il più leggero refolo di vento tagliava la pelle dal freddo.

Avviò l’auto e lasciò che si riscaldasse per qualche minuto, portando una mano alla bocca e soffiando il fiato caldo sulle dita gelate. Era il suo secondo inverno a New York e sembrava che non riuscisse ad abituarsi a quel clima. In Virginia aveva pensato che cinque gradi a febbraio fossero glaciali. Almeno non sta nevicando, pensò. Meglio guardare il lato positivo.

Il viaggio dal campus della Columbia University fino a casa era di sole sette miglia, ma a quell’ora del giorno c’era un gran traffico e tutti i pendolari erano generalmente irritati. Reid lo passava ascoltando degli audiolibri, come sua figlia maggiore gli aveva recentemente consigliato. Attualmente era a metà de Il nome della rosa di Umberto Eco, anche se quel giorno non riuscì ad ascoltare neanche una parola. Stava pensando al messaggio criptico di Maya.

Casa Lawson era un bungalow a due piani di mattoni marroni che si ergeva a Riverdale, nella zona a nord del Bronx. Lui amava quel quartiere bucolico e suburbano, la sua prossimità alla città e all'università, le stradine tortuose che a sud si trasformavano in ampi viali. Anche le ragazze lo amavano, e se Maya fosse stata accettata alla Columbia, o persino alla sua seconda scelta di New York, non avrebbe dovuto lasciarlo.

Reid capì che c’era qualcosa di diverso non appena entrò in casa. Lo sentiva nell’aria. Udì delle voci smorzate che venivano dalla cucina in fondo al corridoio. Appoggiò la tracolla e si sfilò silenziosamente la giacca sportiva prima di avanzare in punta di piedi nell’ingresso.

“Che cosa sta succedendo qui?” chiese a mo’ di saluto.

“Ciao, papà!” Sara, la sua figlia quattordicenne saltellava sui talloni mentre guardava Maya, la sorella maggiore, che eseguiva un losco rituale sopra una pirofila di Pyrex. “Stiamo preparando la cena!”

Io sto preparando la cena,” mormorò Maya, senza alzare lo sguardo. “Lei assiste solamente.”

Reid batté le palpebre per la sorpresa. “Okay. Ho delle domande.” Sbirciò sopra la spalla di Maya che stava applicando una gelatina viola su un fila ordinata di costolette di maiale. “A partire da… uh?”

Maya continuò a tenere lo sguardo basso. “Non guardami così,” disse. “Sono stata costretta a seguire il corso di economia domestica, quindi sarà meglio che ne faccia buon uso.” Alla fine spostò gli occhi su di lui e gli lanciò un sorriso teso. “E non farci l’abitudine.”

Reid alzò le mani con aria conciliatoria. “Assolutamente.”

Maya aveva sedici anni ed era pericolosamente intelligente. Era ovvio che avesse ereditato il cervello da sua madre; quello sarebbe stato il suo ultimo anno del liceo dato che aveva saltato la terza media. Aveva i capelli scuri di Reid, il suo sorriso pensieroso e il suo talento per il dramma. Sara, d'altra parte, aveva preso tutto da Kate. Man mano che diventava adolescente, a Reid capitava di intristirsi guardandola, ma non lo faceva mai vedere. Aveva anche assunto il carattere focoso di Kate. La maggior parte del tempo Sara era una ragazza dolce, ma di tanto in tanto esplodeva e le conseguenze erano terribili.

Reid guardò sbalordito mentre le ragazze apparecchiavano e servivano la cena. “Sembra tutto buonissimo, Maya,” commentò.

“Oh, aspetta. Ancora una cosa.” La ragazza prese qualcosa dal frigo, una bottiglia marrone. “La tua preferita è la belga, vero?”

Reid strinse gli occhi. “Come hai fatto a…?”

“Non preoccuparti, l’ho fatta comprare a zia Linda.” Aprì il tappo e versò la birra in un bicchiere. “Ecco. Ora possiamo mangiare.”

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