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Anton Giulio Barrili
L'olmo e l'edera

A ENRICO DESCALZI

_Sebbene io non l'ho per un lavoro eccellente, ma perchè ho deliberato di mettere sopra ognuno de' miei libri il nome di un amico, amo intitolare a Lei, uno dei pochi carissimi, questo mio racconto, che non sarà po' poi la cosa più brutta del mondo in questo genere di manifatture letterarie.

Intorno alle quali vorrei pur dire alcun che, tanto per levare l'appiglio ad una riprensione che mi potrebbe esser fatta, del non sapere io uscire a cercare le mie inspirazioni e i miei temi fuori di porta Pila, o di porta Lanterna. Ecco il secondo romanzo, e, contando gli altri in corso di stampa, il quarto che s'è allogato tra le mura di Genova. Ora, è tutta in Genova la vita italiana? O non s'ha a vederci un po' d'amore del campanile, in questo non badare che a lei?

No, l'amore del campanile non c'entra per nulla. Ella sa, gentile amico, che amo casa mia, e mi sento morire dal mal del paese quando sono lontano da questa prediletta mia terra; ma avrebbe il gran torto chi ascrivesse a cotesto il restringer ch'io fo l'orizzonte dei miei quadri, e non volesse vederci in quella vece il dito della necessità, siccome vo' dimostrare ai benevoli.

A me, anzi tutto, la non m'entra, di celebrare l'unità, col far nascere a Roma, o a Firenze, ciò che ho copiato, bene o male, dal vero, nel mio piccolo spazio di terra, sotto il mio lembo di cielo; chè non vo' far dipinture stonate. E poi, mi venisse anco fatto di dettare un romanzo fiorentino pretto sputato, e' riuscirebbe forse più schiettamente italiano?

Noi (s'ha da mettere in sodo) non abbiamo in Italia l'urbs, il cuore, il capo, e il ventre della nazione in una sola città. La Francia, rispetto a vita sociale, è tutta quanta a Parigi, come l'Inghilterra a Londra; ma da noi gli è il caso contrario. Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Genova, Venezia, Roma, Bologna e Torino (Ella vede che le pongo a mazzo) sono esse tutta l'Italia, e ognuna di esse, insieme coi caratteri comuni a tutte, porta i suoi caratteri particolari. Valentuomo colui che meglio saprà cogliere la fisionomia di uno tra questi centri della vita italiana, e meglio allogare le sue fantasie nelle strade e nelle usanze della città ch'egli conosce più addentro! Parlo, s'intende, del romanzo di costumi; che per lo storico, la bisogna corre diversa, essendo mestieri di studiare i luoghi colla storia tra mani, giusta le impressioni che balzano fuori dal raffronto.

Io dunque, genovese, serberò fede a Genova. Ma anco a danno della diffusione de' miei libri? Sì, certamente, e perchè no? Alle corte, chi legge i nostri libri? chi li compera? Egli è già molto quando si rifà le spese della carta e dell'inchiostro; le penne e la fantasia ci si mettono per sovra mercato. Dov'è l'editore italiano? E a cui profferisce volonteroso i suoi tipi e il suo danaro1?

Salvo tre o quattro, giunti a fatica sui greppi del Parnaso librario, nè tutti con meritata autorità di nome, ogni scrittore ha da industriarsi colle sue mani, farla da autore, da editore e da spacciatore della sua mercatanzia, E chi è poi, di questi tapini, che rompe le porte Scee ed introduce il suo cavallo di legno, carico di volumi, nella città non sua?

Per chi ha fisso il chiodo di scrivere, e di stampare dopo di aver scritto, non rimane che la propria. E qui non c'è nemmanco da cantar vittoria. La città nella quale si vive, alla quale si dimanda il sussidio di quattrocento lettori, vuol essere, rispettivamente al libro, spartita in tre classi. V'hanno coloro che comprano; amici e conoscenti, i quali, come non pretendono che l'orologiaio regali loro un oriuolo, nè il mercatante un sacco di grano, così non pretendono che l'autore faccia loro un presente di quel libro che egli ha già dovuto pagare al tipografo; ottimi cittadini che vedono il nome dell'amico sulle cantonate e si ricordano di passare dal libraio (che intanto la è tutta strada) per pagare un cortese tributo all'amor delle lettere. V'hanno coloro che leggono, e lodano lo scritto, o la buona intenzione dello scritto, ma pigliano il libro ad imprestito. V'hanno finalmente coloro che lo scherniscono, senza averlo comprato, nè letto. Ora dimando io, come ha da cavarsela il povero autore, in un simile stato di cose?

Noi italiani, quanti siamo a saper leggere e scrivere, non ci adoperiamo punto, per fare un po' di strada al libro italiano. La stampa periodica non reputa ufficio suo prestarsi a quest'opera di grande utilità, e molto per colpa sua (lo si lasci dire a me, laureato in questa magra disciplina), gli scrittori intisichiscono coi loro libri nelle rispettive cerchie di mura. Per contro, la stampa sullodata aiuta, e grandemente, a far comperare da tutti il libro forastiero. L'annunzio facilmente accolto, la volubile loquacità del novelliere parigino, la notizia bella e fatta, che non c'è altra fatica a pigliarla, fuor che un colpo di forbici, finalmente l'andazzo, la necessità di mostrarsi al fatto d'ogni novità letteraria che sia strombettata tre mesi a tutti i trentasei venti della bussola, fanno sì che il libro francese sdruccioli alla lesta da noi, aspettato, ammirato, salutato, come una nave che dopo una lunga fatica di mastri d'ascia e calafati, finalmente abbandona il cantiere, per tuffarsi nel suo elemento.

Nè io mi lagnerei di cotesto, se cogli italiani si adoperasse del pari. Ma di questi, o per noncuranza, o per deliberato proposito, si tace. Gran mercè quando s'è amici: imperocchè il giornale tira giù quattro righe, ma senza ombra di pensamento, senza lume di critica, così alla dozzinale, come si va scodellando la minestra ai poveri sulla porta dei conventi: ed allora, la è grazia profumata. Donde avviene che ogni lettore italiano sa il nome, non pure dei quattro o cinque luminari della scienza_ _e dell'arte forastiera, ma eziandio delle costellazioni minori, e financo delle nebulose; ma nulla, o quasi, degli autori nostrani, e il milanese non ha notizia del napoletano, nè il fiorentino del torinese. Quel po' di notorietà che si spande, dopo lungo anfanare, tra letterati, è un semenzaio di pettegolezzi, una società di mutua denigrazione.

Io quasi vorrei proporre ai giornalisti e scrittori italiani un congresso, per sciogliere inter pocula questi problemi: a che giova la proprietà letteraria, se il libro non val nulla? che vuol dire che facciamo sempre la pappa altrui, e alle cose nostre non provvediamo? se il libro è una buona cosa, come arte e come industria, come decoro letterario e come fonte di guadagno per molta gente, perchè non aiutiamo ad arricchire il paese? e se non lo è, perchè ci lagniamo della scarsità dei buoni studi tra noi?

A tali distrette è la letteratura italiana! E se non facciamo ancora uno sciopero (che forse sarebbe il meglio, e nessun compratore della nostra derrata se ne recherebbe più che tanto) rimanghiamo tuttavia i più gran scioperati del mondo, e quando lavoriamo, c'è nell'opera nostra la svogliatezza di chi lavora senza mercede; non c'è ordine, non comunanza di propositi, non cospirazione di intendimenti. Siamo una dozzina di scuole, che tutte si adoperano alla spartita, che tutte cominciano dal loro abbicì, e non riescono a capolavori.

E avanti così, poichè così vuole la nostra fiacchezza. Uno si ferma disanimato a mezza strada, e ripiglia l'avvocatura; l'altro s'agguata ad una cattedra, contento di marcirvi; un altro muore d'inedia. Povera arte, povera scienza, fino a tanto che nessuno si capaciti della necessità d'un rimedio…..

Ella ora, gentile amico, condoni la tantaféra, ed ami il suo Di Genova, il 26 maggio 1867._

ANTON GIULIO BARRILI.

L'OLMO E L'EDERA

I

Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb'essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell'arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell'autore.

Io, digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia, ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m'è rimasto impresso nella memoria, de' casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre eziandio l'autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili; laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a chi scrisse.

Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo. E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni; sibbene (e vo' dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che sanno essere un giorno accadute.

Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l'anno e il mese da cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi di suo pugno la data.

Era per l'appunto in quell'anno e in quella stagione; sulle scene del teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per l'undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c'era più in platea quella frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari) il malanno delle prime rappresentazioni.

Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia; rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si gira liberamente da un capo all'altro dell'emiciclo, dando un saluto a diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d'ogni parte le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire ogni seno.

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