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Anton Giulio Barrili
Galatea

I
Rinaldo a Filippo

Corsenna, 7 luglio 18…

Notizie mie? Eccole. Son venuto qua, come sai, per dar pace a questi poveri nervi; e ci lavoro alacremente, chiudendomi nell'inerzia più fitta. Bada, io non so quanto sia vero che ai giorni nostri i nervi si sciupino più di prima, nella gran varietà e nella troppa intensità delle sensazioni: ma è certo che oggi come prima lo strapazzo nuoce ad ogni organismo, e certissimo poi che il tuo vecchio amico aveva bisogno di questo riposo; tanto gli pare d'esser tuttavia sfiaccolato. Pure non faccio nulla, assolutamente nulla; questa lettera, che viene un po' tardi in risposta al tuo cortese biglietto, è la prima fatica dopo un mese di quiete. Già, non potrei far nulla, anche volendo. Non sento più; e se, come dice il filosofo, niente può essere nell'intelletto che non sia stato prima nel senso, io posso stimarmi finito, e metter magari l'appigionasi in fronte, come sulla facciata d'una casa vuota. Che bella cosa, dopo tutto, non sentir nulla; esser libero e netto d'ogni cura del mondo circostante; udendo senza commuoversi, vedendo senza partecipare, vivendo la vita dello specchio, che riflette tranquillamente ogni cosa e sorride! Ma sì, un po' d'ironia nel fondo ce la dovrebbe avere anche lui; per virtù, non foss'altro, degl'ingredienti che lo rendono opaco. Quel po' d'ironia non è finalmente la meno feroce delle nostre vendette? e il genere umano, salva sempre la immagine del suo creatore, non meriterebbe di peggio?

"Ama il prossimo tuo come te stesso" è alla fin fine il comando del principale: ed egli sa bene che io non amo me stesso. Frattanto, come è vero che quello è il mio prossimo! Io l'ho sempre sentito dal premere che mi faceva d'attorno, pari ai gomiti di quattro o cinque vicini nella calca dove ci ha ficcati il nostro mal genio, in un quarto d'ora di sciocca curiosità. E il mondo è una calca, una moltitudine, una ressa di forze invisibili, che d'ogni parte lavorano su te, per prenderti il posto che occupi, per non lasciarti occupare il posto che desideri, fosse pure un posto d'usciere. Si tira a tutto, e con la stessa arte da tutti; qualunque sia il grado, o l'educazione, è sempre guerra sorda di agguati, d'insidie, di tradimenti. Ognuno l'ha con te: più sei forte, o più ti credono tale, più si affannano a soverchiarti, a tirarti giù, a darti il gambetto. Gl'interessi che non hai offesi fischiano da tutti i pruneti, si avventano da tutte le macchie; nessun briccone è più appostato di te dagli onest'uomini in caccia. Se tu provassi a morire! oh, allora, lodato il cielo, una buona rifiatata di mille petti, che si diffonderebbe dalla tua città, come un soffio di primavera, a tutti i punti del "bello italo regno." Vivo, non avevi scritto altro che birbonate; morto te, erano tutte maravigile. Ti gabellavano per un asino? eccoti diventato un cigno; l'ultima tua ode era degna di Pindaro. Prova a morire, e vedrai; ti faranno un funerale di prima classe, e tutta una cittadinanza "dipinta di cordoglio" farà spalliera al cortèo, mentre tu, felice grand'uomo, traballerai nel tuo carro sotto una montagna di corone, che più non ebbe scudi addosso la vergine Tarpeia, in premio del Campidoglio aperto ai Sabini. Quanto a me, senti: ho già fatto testamento, e scritto in chiarissima forma: "Non voglio discorsi, nè marce funebri; nè bugie, nè stuonature. Voglio andare al mio ripostiglio di nottetempo; con due amici, se tanti me ne saranno rimasti, i quali si prenderanno cura di vigilare che le mie ossa vadano proprio al luogo assegnato, e un altro morto non mi rubi la fossa." Con questo prossimo benedetto, non si sa mai quel che possa succedere.

Idee nere, dirai. Ma io, se rammenti, le ho sempre avute. A certe cose bisogna pensarci in tempo, per non esser poi colti alla sprovveduta. Quella gran diavola della falce è così capricciosa! Già, donna anche lei; ed io non voglio esser più corbellato. Errori, ne ho commessi molti, fin troppi, cercando l'introvabile. Povere donne, del resto! Ossequiate, lusingate, insidiate, ti amano per vanità: molte, se sei ricco, sentono il bisogno di entrare nella tua casa; nessuna il desiderio di penetrare nell'anima tua. Ed è strano contrasto; perchè noi uomini, chi più chi meno, avremmo tutti la curiosità di penetrare nell'anima loro, anche a costo di non trovarci niente. Così l'amore, rinunziando al piacere dell'indagine psicologica, si riduce necessariamente ad uno scherzo, ad un grazioso errore commesso qualche volta per ardore di temperamento, più spesso per follia d'imitazione. Ah, il mondo non è più dei sensitivi. Si fanno tante cose per consuetudine, per vezzo, per moda, non ritrovandoci più il senso arcano dei loro principii; esempio l'andare in campagna, un piacere estivo, che si compra senza gustarlo, senza intenderlo, trasformandolo secondo l'uso della città. Dov'è strada piana, gli uomini portano la bicicletta; dov'è lago, il sandolino; da per tutto il lawn-tennis. In fin de' conti, meglio così; la campagna è tutta per me. Sono miei i folti castagni del bosco; miei gli olmi e i salici, i fràssini e gli ontàni del fiumo; mia la borraccina delle balze, donde si levano gli argentei pennacchi dei cardi, rilucenti ad una spera di sole.

Questa campagna è bella, quantunque senza carattere. Salvator Rosa ci perderebbe l'ispirazione tormentata e robusta, Claudio Lorenese la sua placida e larga vena poetica. Non ci sono dirupi minacciosi, non classiche aperture d'orizzonti lontani. Così niente fa pensare, tutto fa vegetare; ottima cosa per me, che non ho più fantasia. Dov'è andata a finire? Sicuramente, l'ho fatta correr troppo. L'uomo ha le sue quaranta libbre di sangue e le sue quattr'once d'ideale: se egli sa farne un uso discreto, bene; se no, addio roba. Io non iscrivo più una riga. Il mio Don Giovanni dorme. Buon poema, che voleva esprimer la vita veduta, collegandola coll'invisibile sentito! Non lo intendo più; ne rigiro per ogni verso la tela, e non ci trovo il vivagno; vedo il contorno e mi sfugge la linea, l'idea madre, che mi pareva già tanto chiara, originale e profonda. Sono una rovina, e brutta, che per le rovine è il peggio. C'è qui, sulla fine di un campo, lungo la strada maestra, una casupola ad uscio e tetto, ma coll'uscio sfondato e il tetto crollato. Corse un giorno la voce che là dentro si fosse veduta la Madonna; e non mancava la ragazzina innocente per dar fede al miracolo. Ma che vuoi? il miracolo non ha potuto attecchire, come attecchivano le ortiche, in quel cumulo di macerie così poco romantiche. Poesia, voleva essere; e qui non c'è poesia.

Tanto meglio per me. Questa vita vegetativa mi conviene benissimo. Leggo poco; a mala pena giornali, e nei giornali solamente i telegrammi, per tenermi in comunione di noie con l'Europa. Gli eventi politici son grigi, come il mio spirito, e mi fanno dormire. Ma che follia, nel dormire! Sogno ancora qualche volta, vedendo la bella inglesina. Te ne rammenti, dell'inglesina dei miei sogni d'adolescente, che soleva ritornare a punti di luna nei miei sogni di giovinetto? C'era, obbligata in chiave, la strada polverosa, bianca, abbagliante, sotto la sferza del sol di giugno; la grossa berlina a tre cavalli, coi bauli dietro e il postiglione alto a cassetta; lei, l'inglesina, accanto al suo babbo, vecchio muso di cartapecora, miniato liberalmente di rosso tra due fedinoni grigi, ma sempre mezzo nascosto nell'ombra, dall altra parte della carrozza, per comodo della mia prospettiva amorosa; mentre lei, dolce creatura bionda, si vedeva tutta quanta allo sportello, intesa a ricambiare d'uno sguardo pietoso il mio gesto e il mio grido di supplicante. Cara inglesina del sogno ricorrente! Tu raffiguravi il divino ideale, che passa sempre a galoppo, che se ne va inesorabilmente, dileguandosi nel polverìo della strada battuta.

Che ideale, poi! Se, col permesso del babbo, l'inglesina ci pigliasse in parola, e in carrozza, poveri a noi!—How do you do?—Very well, Sir; we have never been better.—How do you like Italy?—Very much indeed: do you like sandwiches, Sir?—I like them very much.—And roastbeef?—It is delicious, but I should prefer a veal-cutlet.— Che orrori!

II
Sequitur Lamentatio…

Corsenna, 12 luglio 18…

Hai un bel canzonarmi, osservando che io porto i miei sopraccapi anche in villa, e paragonandomi (questa poi è nuovissima) al triste cavaliere di Orazio, che si trascinava in groppa la più fastidiosa tra le dame. Ma io non posso farmi diverso da quello che sono: faccio già molto a scriverti, e tu dovresti essermi grato d'un sacrifizio che nessun altri ottiene da me. Del resto, canzonami pure; mentre io, per non disimparare del tutto la vecchia arte di Cadmo, bene o male continuo a scrivere, facendo per te una specie di giornale; il giornale di Corsenna, niente di meno! Questo villaggio non ha mai sognato, nella più felice delle sue notti, un onor così grande. Il giornale rimarrà inedito, pur troppo: ma i Corsennati avranno pazienza; l'avranno tanto più volentieri, in quanto che, se il giornale fosse stampato, essi non si prenderebbero certamente la briga di leggerlo. Sono un popolo saggio, i Corsennati, di ceppo italico antico e sincero.

Incominciamo ad ogni modo. Articolo di fondo: ho trovato una bella passeggiata veramente degna di noi. Seguimi, facendoti coraggio tuttavia, perchè bisogna passare sopra un pancone, anzi su due, accostati pei lor capi a tocca e non tocca sull'asse d'una piedica, che vorrebbe parere una pila di ponte. La vedo brutta, quella povera pila, ai primi rovesci d'autunno; e vedo brutti egualmente i due panconi sconnessi, con quel tronco di pino che fa da ringhiera, mal rimondato e peggio assicurato su quattro pali malissimo inchiodati, per uso dei passeggeri che soffrono di vertigini. Già, i più non ci si fidano, e passan di sotto. Per tua norma, il fiume è magro anzi che no, tanto magro che fa pena a vederlo, disteso in quel suo grandissimo letto. Pozze e pozzanghere non gliene mancano, ma già tirano al verde: ci ha da una sponda o dall'altra qualche fosserello addormentato sotto la frasca sporgente dei frassini, e qualche tonfano rannicchiato al riparo d'un gran masso rugoso; mentre un fil d'acqua viva corre brillando e sussurrando tra i ciottoli, per collegare e nutrire tutti quei Nianza e Tanganica, dei quali il più grosso non è largo due metri.

Di là dal greto, che si vede qua e là screziato e rallegrato da larghi cesti di romice, da candelabri fogliosi di tasso barbasso, di labbra d'asino, di denti di leone, d'orecchi di topo e di scarpette di Venere, si stende una fila nereggiante di ontàni. Un po' radi, gli ontàni e non alti, perchè i proprietarii di qui non lasciano invecchiare le piante da taglio, smaniosi di far quattrini, che il diavolo se li porti! Dietro la scarsa fila degli ontàni, corre un sentiero campestre, costeggiando la riva; di là dal sentiero, davanti a me ed al mio ponte di legno, si dilunga verso la montagna una doppia fila di pioppi, spettacolosi per l'altezza delle vette ed anche per la grossezza dei tronchi. Ah, sia lodato il cielo; si capisce qui che il padrone di quei pioppi è un signore per davvero, o che almeno non ha l'acqua alla gola, e in ogni caso è un poeta, che ama le belle cose e vuol dare la sua parte anche agli occhi.

Che sarà mai questa piantata di pioppi? Sono un centinaio per parte, e il largo viale che si stende nel mezzo dovrebbe condurre ad un castello, ad un palazzo, ad un nobile edifizio, insomma. Cerca cerca, l'edifizio non c'è; neanche le rovine. Meglio così; le rovine non avrebbero carattere; un edifizio in piedi, abitato e custodito, mi costringerebbe a girar largo, per non dar noia o non riceverne dai suoi possessori. Quel gran viale, bontà sua, ti conduce ad una vasta prateria, ad una conca, ad un anfiteatro di verdura, più nobile di qualsivoglia edifizio. Che bellezza! e che pace, compimento di bellezza! Il dolce piano, leggermente incavato, è tutto un tappeto di verde tenero, che si ravviva di toni gialli al sorriso del sole; screziato a capriccio dalle candide rappe delle piantaggini tremolanti alla brezza sui loro elegantissimi steli, o dai rossi calici spampanati dei rosolacci in ritardo; rotto a larghi intervalli, o infoscato sui lembi, da cesti di sermollino, da ciuffi di règamo, da cespugli di mentastro. In capo alla prateria, che sale via via come il labbro d'una coppa di malachite, sorge e si spande una siepe di carpinelle, oltre la quale si leva la costa del poggio, tutta densa di castagni fino al suo colmo, donde sbuca un campanile aguzzo e trapela il tetto della chiesuola di Santa Giustina.

Non conosco la santa, e non ho ancora veduto il santuario. È la prima volta che mi decido a passare il fiume, e che quel campanile m'invita. Dicono che il fulmine l'abbia già visitato due volte. Certo, il fulmine è più volenteroso alpinista di me; ed anche più allegro. Lo ha notato il poeta nella indimenticabile strofa:

 
    Il gentile terremoto
    Con l'amabile suo moto
    Diroccava le città;
 
 
    Ed il fulmine giulivo
    Che non lascia uomo vivo
    Saltellava qua e là.
 

Facciamoci avanti. Tra la siepe delle carpinelle e le falde del monte, serrata ai fianchi dal margine naturale del terreno e da quello di un rialto artificiale tutto vestito di zolle verdeggianti, corre un'acqua profonda, limpida e cristallina. Ah, capisco finalmente perchè il fiume abbia sete. Gli han fatto una pescaia molto più in su, e l'acqua se ne viene da un lato, per il suo canaletto, mormorando il suo saluto alle felci e ai capelveneri, cheta cheta immollando il terreno senza corroderlo. Quante erbe ci vivono, in quella grazia di Dio. succhiandola con mille e mille radici! quanti fiori ci pendon sopra, come se volessero covarla con gli occhi innamorati! Fiorellini, fiorellini, oserò dir io i vostri nomi, nella barbara lingua dotta che voi non sapete? Nella lingua del paese non li so io, e non ho tempo da perdere, volendo piuttosto ammirarvi. Il vostro nome è bellezza; e questo in tutte le lingue del mondo. Uno di essi è bianco di latte, e la sua corolla piccina, fatta di quattro petali spanti, pesa ancor molto sulla lunga asticciuola filiforme. Dev'esser zuccherino, il suo calice, perchè troppo volentieri gl'insetti vanno ad immergere il muso là dentro. Un altro ha il gambo più grosso, almeno quanto un cordoncino di tre fili di refe; e porta in capo un tubetto rigonfio alla base, più stretto al collo, donde salgono arrovesciandosi quattro eleganti lacinie, per mezzo alle quali guardando s'intravvede nel fondo un giro di grumoletti d'oro, sospesi su tenui stami d'argento, come perle o gemme sulle punte d'una corona. A chi è destinato il tesoro? Qual genio minuscolo, della figliuolanza di Oberone e Titania, cingerà il grazioso diadema custodito in quell'urna di zaffiro? Non indaghiamo, non facciamo almanacchi. Vegetiamo, sia la parola d'ordine per me, come a Pertinace il suo "Militemus" come il suo "Laboremus" a Settimio Severo.

"Qui freno al corso," come dice David nella prima scena del Saul; qui siedo e me ne sto un paio d'ore al rezzo, contemplando i moscerini che volano nell'aria cupa, non trattenendo i pensieri che passano liberamente per l'anima, senza lasciarci una traccia. È in questo recesso ombroso una quiete, una calma tiepida, attraversata a quando a quando da soavissimi aliti di frescura, onde hai tutte le sensazioni del supremo benessere. Non so come sia che un miliardo e mezzo di creature, tra ragionanti, e sragionanti, sparse sulla faccia della terra, non l'abbiano ancora sentito. Capisco che per molti è questione di vivere, e i bisogni urgenti non danno agio a pensare: capisco ancora che la felicità suprema dell'estasi inerte richiede un alto grado di perfezione intellettuale. Ma tutti quelli che l'hanno raggiunto, quel grado, perchè si vengono moltiplicando senza ragione i bisogni? perchè vanno attorno cercando i malanni col lumicino? perchè ficcano la mano nel vaso di Pandora, rovistando nel fondo, se per caso ci fosse rimasto ancora un fastidio? A buon conto, io non mi prenderò quello di salire a Santa Giustina. Si sta qui tanto bene, mezzo appoggiati e mezzo seduti sulla spalla dell'argine! Passano a coppie le farfalle, pieridi e vanesse dorate, rincorrendosi tra le piante, apparendo e disparendo senza posa, contente di agitarsi e di vivere; vengono folgorando nell'aria, quasi radendo il pelo dell'acqua, le damigelle e i cavalocchi dalle diafane ali iridate, dai corpicini sottili, tutti a colori metallici, per andare a librarsi un tratto sulle rappe fiorite, donde guizzano e scintillano senza posa, come pennini di gioie tremolanti sul capo di una bella donna a teatro.

E dove lascio gli uccellini? Ce ne sono di tutte le specie, che attendono ai fatti loro senza curarsi di me; cincie, pettirossi, cardellini, scriccioli; pigolanti, strillanti, zirlanti nella macchia, ch'è un piacere a sentirli. Le stonature non mancano. Laggiù, dagli olmi del gran viale, si sente un gracchio che non mi va niente a sangue.

–È il rosignuolo;—mi dice un contadino che passa e che mi ha dato il buon giorno.

–Il rosignuolo, quello?—esclamo io.—Avrei detto un corvo, piuttosto, o una gazza, sua parente.

–Nossignore, gli è proprio il rosignuolo. Da mezzo giugno in poi, canta così. È nel nido.

–In famiglia, non è vero?

–Eh sì, come vuole Vossignoria. La casa del rosignuolo è il suo nido, e la rosignuola è sua moglie.—

Ho capito, e ne sono tutto confuso. Dunque la storia è questa? Appaiato e contento, il rosignuolo non canta più così bene come quando faceva all'amore; anzi, non canta più affatto, dà fuori un grido rauco d'animale accidioso e brontolone. Ah, figlio d'un…. rosignuolo anche tu! Dopo le dolci pene del desiderio, la fiaccona del possesso; e addio le ventiquattro arie diverse, non tenendo conto delle variazioni, dei passaggi, delle rifiorite che nel tuo canto ha notate con diligenza tedesca il Bechstein. Ma sono uomini, dunque, i rosignuoli? uomini anch'essi? Ahi, triste cosa!

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