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Various
La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte III / Terza serie – Storia

PIO IX E PELLEGRINO ROSSI

CONFERENZA
DI
ERNESTO MASI

Continuo il tema che mi fu assegnato l'anno scorso.

Mi fermai al 16 luglio 1846, e, riepilogando l'effetto immenso, profondo, fulmineo del grand'atto compiuto da Pio IX, col perdonare a tutti i condannati politici, precorsi alquanto il tempo seguente. Mi conviene ora ridare alla cronologia tutti i suoi diritti: imprescrittibili sempre, più che mai lo sono a proposito di Pio IX. La sua gloria di primo promotore, nell'ordine dei fatti (s'intende), del risorgimento politico italiano ha non solo gli anni, ma i mesi, i giorni, le ore contate… E a passar oltre sbadatamente si rischia di non comprender più nulla nè della storia, nè dell'uomo.

La storia diviene una diatriba politica tutta pro o tutta contro, a seconda della fazione che la inspira; l'uomo un così confuso mistero di luce e di buio, di bene e di male, che la sua stessa personalità si oscura e si dilegua quasi del tutto, nè è più possibile distinguere e determinare la responsabilità sua e quella degli altri personaggi, portati via via accanto a lui o sbalzati lontano dalla bufera rivoluzionaria, che, non volendo, egli ha sollevata.

Chi guardasse soltanto ai primi effetti e così straordinari dell'opera di Pio IX, ci sarebbe quasi per un momento da scambiarlo per uno degli Eroi del Carlyle, la potenza creatrice dei quali è la sola realtà naturale, che, secondo il filosofo inglese, domini la storia. Questo, che è un po' il concetto medesimo del Machiavelli, per cui pure la volontà, l'energia, l'intelligenza individuale dei grandi uomini sono la causa unica di tutti i maggiori avvenimenti, non s'attaglia però che come un'apparenza fuggevole a Pio IX. È giusto soggiungere bensì, che, nelle complicazioni via via crescenti sempre più della storia moderna e contemporanea, tale concetto s'attaglia a tutti i grandi uomini sempre meno.

Al Carlyle derivava da quella metafisica tedesca, per la quale la storia non era che l'incarnazione visibile d'un'Idea: e al posto dell'Idea il Carlyle mise l'Eroe. Ma se quest'attenuazione o trascrizione inglese d'uno schema storico puramente metafisico è resa più pratica, più positiva, più francese, direi, dal Taine, che al posto dell'Idea e dell'Eroe ha messo un Fatto, da cui tutti gli altri provengono, e lo ha suddistinto nelle tre categorie: razza, ambiente, momento, che all'osservazione psicologica dovrebbero far scoprire il documento umano nella storia, Pio IX, il nostro eroe, non se ne vantaggerebbe molto di più, perocchè in lui è tale sproporzione coll'ambiente e il momento, che prima ancora che il momento passi e l'ambiente si muti, l'eroe è già quasi scomparso. Ne ebbe la chiara visione egli stesso, e l'ebbe (sia detto a lode della sua sincerità) e l'ebbe prima d'ogni altro, quando nella piena luce della sua apoteosi: «mi vogliono un Napoleone, diceva, mentre io non sono che un povero curato di campagna!»

Non per questo diviene vera e giusta l'affermazione del repubblicano federalista, Carlo Cattaneo: «Pio IX fu fatto da altri e si disfece da sè»; non per questo diviene vera e giusta l'affermazione del mazziniano Aurelio Saffi: «il papa delle speranze e dei desiderii degli Italiani non esistette mai nella storia.» No, Pio IX non si disfece tutto da sè. Molti altri aiutarono: lo stesso Cattaneo e i suoi correligionari fra i tanti. No. Il Pio IX dal 16 luglio 1846 fino all'Enciclica del 29 aprile 1848, con cui disertò la causa italiana, fu una vera e grande realtà della storia, e a cui Aurelio Saffi credette allora non meno di tutti gli altri.

Più giusto, più vero, se mai, lo stornello contemporaneo del Dall'Ongaro:

 
Chi grida per le vie: viva Pio IX,
Vuol dir: viva la patria ed il perdono!
La patria ed il pardon vogliono dire
Che per l'Italia si deve morire…;
 

espressione schietta d'un sottinteso, che sfuggì allora a Pio IX al pari che a tutti gli altri, siccome sfuggì allora a tutti, per esempio, che mentre il 16 luglio 1846 era concessa l'amnistia ai condannati politici, il 18 del mese stesso si concedevano premi e decorazioni ai benemeriti, i quali avevano represso il moto liberale di Rimini del 1845.

Pio IX non s'accorse, che l'amnistia volea dire guerra all'Austria e indipendenza italiana, e niun altro s'accorse del pari, che fra quei premi, quelle decorazioni e l'amnistia era un'antitesi così balorda, da escludere persino il sospetto che fosse stata voluta. Un solo storico, e fra i meno noti, registrò questo fatterello, Benedetto Grandoni, un moderato e fanatico di Pio IX, ma fratello a quel Luigi Grandoni, ardente repubblicano e suicidatosi in carcere, perchè sospettato correo nell'assassinio di Pellegrino Rossi; contrasto intimo di famiglia codesto, da poter esso pure sembrare fortuito e insignificante, se non rappresentasse in piccolo quel ben più largo, vario ed universale contrasto, in cui moderati, repubblicani, riforme, costituzioni, costituenti, popoli, principi, insurrezioni, guerre, monarchie, repubbliche, tutto il gran moto nazionale, iniziato da Pio IX, fu travolto e precipitato in una sola, identica ed immensa ruina.

Parecchi mesi erano passati dall'amnistia, e le buone intenzioni del nuovo Papa erano rimaste intenzioni: Segretario di Stato il cardinal Gizzi, perchè Massimo d'Azeglio l'avea pubblicamente giudicato uno dei meno peggio fra i cardinali, qualche circolare, qualche Commissione (i soliti armeggii di chi non sa che pesci pigliare), ma di vere riforme neppure un principio.

Nonostante il popolo non si saziava di adorare Pio IX e d'incitarlo con le continue manifestazioni del suo entusiasmo e delle sue speranze, fra le quali, oltre alle solite d'ogni sera, sono rimaste celebri quella dell'8 settembre col grand'arco di trionfo a piazza del Popolo e il delirio di grida e di applausi, che accompagnò il trionfatore, e quella del 4 novembre, in cui gli applausi e le grida furono invece tanto minori, appunto per ammonire il Papa, che era finalmente tempo di muoversi.

Si mosse di fatto: accrebbe il numero dei laici nella Commissione per la riforma dei codici; fra gli altri il Silvani, un rivoluzionario del 31; pensò a frenare il vagabondaggio; promise le ferrovie: bazzecole, se si vuole, ma il popolo e il suo tribuno, Ciceruacchio, non dovevano stentar molto a concluderne, che il loro schiamazzo o il loro silenzio entravano dunque per molto nelle risoluzioni del Papa, le cui esitanze avevano, si diceva, due cause segrete: gli ammonimenti dell'Austria e l'opposizione della Corte e della Curia Romana.

Altri pretende che egli stesso repugnasse ad andar oltre. Non credo! L'idillio è vero e schietto ancora da ambe le parti: nel popolo, che chiede, nel principe, che concede. Ma il popolo è ombroso, geloso del suo idolo, e l'11 novembre al banchetto del teatro Alibert, Ciceruacchio, fra gli osanna a Pio IX, fa già vedere nel suo rude linguaggio qualche baleno di minaccia:

 
Se alcun, corpo di Dio, de' rei nemici
Fa un passo avanti… noi già semo intesi!
 

E l'anno 1846 finisce con due fatti, che mirano essi pure a schiarire la mistica nebbia, in cui l'idillio papale è ancora tutto ravvolto: la celebrazione del primo centenario della cacciata degli Austriaci da Genova e l'eco dolorosa della morte di Federico Confalonieri, il martire dello Spielberg, accaduta mentre tornava in Italia, attratto appunto da questo miracoloso chiarore di alba, che era spuntato sulla cupola di San Pietro.

A capo d'anno del 1847 nuovi e sviscerati applausi ed augurii a Pio IX, di cui gli ottimisti presagivano sempre mirabilia, senza che mai l'effetto rispondesse, onde un acuto osservatore, Pellegrino Rossi, che, quantunque Ministro di Francia a Roma da quasi due anni, considerava nondimeno quanto accadeva sotto i suoi occhi con vero cuore d'italiano, se in sulle prime s'era sentito vinto e rapito esso pure da tutto quel nuovo spettacolo e descrivendo al Guizot le dimostrazioni popolari per l'amnistia diceva: «immagini una magnifica piazza, una notte d'estate, il cielo di Roma, una folla immensa, lagrimante, commossa, che riceve con amore e rispetto la benedizione del suo pastore e del suo principe, ed Ella non sarà stupita se aggiungo d'aver partecipato all'emozione generale,» Pellegrino Rossi, dinanzi alla lunga inazione di Pio IX, scriveva ora invece allo stesso Guizot: «questo non è un ideale di governo, bensì un governo allo stato d'idea.»

E intanto la marea popolare pian piano saliva e salendo si ordinava: uscivano giornali; si aprivano circoli; le provincie fraternizzavano colla capitale; mentre da parte del Papa il 19 aprile si concedeva a mala pena una Consulta di Stato, estremo limite di riforme per lui in quel momento, principio invece di ben più larghe riforme per tutti gli altri; principio insomma d'un equivoco ancora latente, ma che al Rossi pareva non dover tardar molto a chiarirsi, sicchè osservando quelle continue dimostrazioni popolari, dal genio tribunizio di Ciceruacchio improntate già quasi di un carattere di disciplina e di simmetria militare, a chi si compiaceva di quel bell'ordine: «fin troppo bello, rispondeva, perchè rassomiglia già ad un'organizzazione!» E per un dottrinario alla Guizot, come molti lo giudicano, vedea abbastanza bene, mi sembra, la realtà sotto le apparenze!

La debolezza del governo si palesava poi ogni giorno di più colla mancanza ovunque di sicurezza pubblica e con brutti torbidi in Roma fra una classe e l'altra d'operai o fra plebe ed ebrei, con forte sospetto, che fossero sobillati da austriacanti e gregoriani. Ed ecco domandarsi a difesa la Guardia Civica, istituzione, che noi abbiamo vista divenir ridicola e poi a poco a poco svanire, ma che allora era importantissima, uno anzi degli articoli di fede del Credo liberale.

Non volle saperne il cardinal Gizzi e si dimise. Tutt'al più avrebbe consentito a rifare i Centurioni alla Bernetti. Che cime d'intelligenze anche allora fra certe aquile del Sacro Collegio!! Ma quella del Gizzi era essa una dimissione od una fuga?

Siamo alla vigilia del primo anniversario dell'amnistia, ed il popolo, si può credere, s'apparecchiava a festeggiarlo più che mai. Ad un tratto, che è? che non è?.. voci paurose si diffondono che l'Austria, d'accordo coi cardinali più avversi a Pio IX, coi Gesuiti e coi retrivi, trama di suscitare gravi disordini nell'Italia centrale per pescarvi un pretesto d'intervento e farla finita subito con tutto questo tramestìo riformista, che le puzza forte di rivoluzionario; i peggiori arnesi della vecchia polizia pontificia sbucano dal guscio delle loro paure e si mostrano di nuovo per Roma baldanzosi, insolenti; essere accorsi, dicevasi, briganti e borghigiani di Faenza, avanzi di sanfedismo, pronti al sangue e al saccheggio; monsignor Grassellini, governatore di Roma, di balla con essi; non altro aspettarsi che l'opportunità di agire.

Ciceruacchio ne è informato; fa sospendere e rimandare tutte le feste già preparate; raduna i suoi seguaci più fidi; rincorre i sanfedisti; alcuni arresta, altri sbanda, altri costringe alla fuga; mette insomma il campo a rumore; ottiene un armamento provvisorio della Guardia Civica; fa destituire ed esiliare il Grassellini; s'incomincia un processo, la trama è sventata, ed il Gioberti può senz'altro paragonare Ciceruacchio a Cicerone, quando salvò Roma dalla congiura di Catilina.

Tuttociò era avvenuto a vista ed a saputa di tutti; un proclama del nuovo Governatore di Roma l'aveva ufficialmente confermato. Eppure, lo credereste? Questa, che si chiamò allora la gran congiura di Roma è da moltissimi scrittori negata; da altri tenuta in conto d'una fantasmagoria insignificante, che solo l'immaginazione popolare ingrossò, da altri infine è mutata addirittura in una cospirazione dei liberali contro i retrogradi.

Due circostanze però, messe ora in piena luce, chiariscono il mistero: l'una è la contemporaneità d'un simile tentativo in altre dieci città italiane, l'altra è l'occupazione improvvisa di Ferrara per parte degli Austriaci il 17 luglio 1847.

A questa avea preceduto l'offerta d'intervento armato nelle quattro Legazioni fatta dal Metternich a monsignor Viale Prelà, nunzio a Vienna, avversissimo a Pio IX, e confermata in Roma al cardinal Gizzi dal conte Lutzow, ambasciatore austriaco. La quale offerta è provata dalla corrispondenza diplomatica dei due residenti inglesi di Vienna e di Firenze con Lord Palmerston e da quella del Conte di Revel, ambasciatore di Sardegna a Londra, col suo Ministro degli esteri.

Non accettata l'offerta, fu tentato provocar l'intervento, eccitando tumulti nell'Italia centrale, con che quella vecchia volpe del Metternich si proponeva due fini, come apparisce dalle sue lettere e dalle sue Memorie, l'uno che se il tentativo riusciva si percorreva al solito in sembiante di restauratori dell'ordine mezza Italia e tutto era finito; l'altro, che se il tentativo non riusciva, la brutale violenza dell'occupazione di Ferrara avrebbe provocato in modo il sentimento degli Italiani, che il riformismo, messo in voga da Pio IX, avrebbe per forza dovuto strapparsi la maschera e lasciar prorompere la rivoluzione e la guerra, e allora bazza a chi tocca, ma almeno s'avrebbe avuto di fronte un corpo, una cosa salda, e non un'ombra inafferrabile, e in ogni modo gli si sarebbe piombato addosso, mentre era ancor debole, scompaginato e, nell'opinione del Metternich, assai più impotente di quello che si mostrò in realtà.

La cosiddetta congiura di Roma è dunque veramente esistita, e grande o piccola che sia stata, un'ignobile bricconata fu di certo e tutta opera del Metternich, degli austriacanti e dei nemici di Pio IX.

Se è parsa dubbia a taluno, se gli storici clericali si sono valsi di questa incertezza per negarla, se restò un abbozzo, anzichè un quadro finito, ciò non toglie nulla al merito del politico senza scrupoli, che la inventò e la promosse, tanto più che se il primo de' suoi calcoli andò fallito, il secondo riescì appuntino, e l'occupazione di Ferrara accelerò a precipizio tutto il moto italiano, chiuse il periodo delle riforme e iniziò quello delle costituzioni, delle insurrezioni e della guerra d'indipendenza, la vera cioè, la grande rivoluzione del 1848.

Ma un altro dubbio sorge qui. V'ha chi pretende nient'altro che Pio IX fosse già complice dell'Austria in questo momento e già pensasse a fuggire da Roma e già avesse chiesto egli stesso l'intervento dell'Austria. Se non che alla gratuita affermazione di pochi manca persino ogni apparenza di prova, mentre invece basta riflettere che se il Papa l'avesse voluto, nessuno l'avrebbe allora impedito e che niente avrebbe giovato meglio al Metternich, per tagliar corto alle proteste del Papa sull'occupazione di Ferrara, e screditarlo per sempre nell'opinione liberale, del rivelare il segreto della sua complicità. No. Non si esclude che tra il Metternich ed il Viale Prelà a Vienna, tra il Lutzow ed il Gizzi a Roma qualche trattativa fosse corsa, e forse è in ciò il motivo della dimissione del Gizzi e la spiegazione dello strano motto del suo successore, Gabriele Ferretti, alla Guardia Civica di Roma, convocata per la tutela dell'ordine: «mostriamo all'Europa che noi bastiamo a noi stessi;» ma pel Metternich, come si rileva da una sua lettera al Ficquelmont del dicembre 1847, Pio IX è ancora un capo di Carbonari, riescito, non si sa come, a cingersi la tiara di San Pietro, nè il principe Cancelliere avrebbe giuocata coll'occupazione di Ferrara l'ultima carta, se avesse avuto tanto in mano da potersi sbarazzare di colpo e senza rischio d'un tale avversario.

Alla popolarità di Pio IX la congiura di Roma e l'occupazione di Ferrara giovarono; ma tre conseguenze si manifestarono subito: l'odio alla Corte e alla Curia, che espresso da pochi per le vie fin dal marzo nel grido: Viva Pio IX solo, divenne ora il grido di tutti; l'allargarsi del moto riformista, il quale, se in Roma aveva già quasi compiuta tutta la sua parabola ascendente, agitò ora nello stesso modo Napoli, Palermo, Milano, Torino, Firenze, e infine l'aspirazione nazionale a cacciar l'Austria dall'Italia, che, dissimulata finora sotto il velo delle riforme, proromperà fra breve con un entusiasmo irresistibile e darà, ripeto, tutto il suo genuino carattere alla rivoluzione iniziata coll'amnistia di Pio IX.

 




 



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