Se volete darmi la mano, rimonteremo insieme la corrente del tempo, che mai non posa, e ci fermeremo là dove il calendario ci dice, che siam giunti al 18 marzo dell'anno 1848.
Giunti là avremo fatto un viaggio di 51 anni, poco pili di mezzo secolo. Pochi di voi erano vivi allora, pochissimi eran già fanciulli o giovinetti. Io sono fra quei pochissimi, e non vorrete accusarmi di vanità se ho voluto quest'oggi parlarvi di ricordi miei. Se quei ricordi son miei, appartengono però alla storia della nostra Italia e in parte ancora alla storia di tutta l'Europa.
A quel passato remoto voi non siete giunti, fortunatamente per voi, che colla guida del libro stampato o della tradizione parlata. Io invece vi giungo sulle ali della mia memoria, memoria che, ricordando, ama e sospira.
Il ricordare il passato, l'evocarlo dalle nebbie del tramonto, per farlo più vicino a noi, è uno dei più cari bisogni dell'anima umana. E se vi fu un solo Giosuè, che per assicurar la vittoria del suo esercito fermò il sole per qualche ora; noi tutti, figli di donna, cento e mille volte fermiamo il tempo, dicendogli: prima di disperderti nell'infinito dell'oblio che tutto seppellisce e consuma, fermati e lasciati guardare e amare. Lascia che i miei occhi ti contemplino, che le mie mani ti accarezzino.
Il presente è l'ombra d'un sogno e quando voglio fermarlo, è già divenuto un passato. – L'avvenire è lontano, è oscuro. O passato, che fosti veramente mio, o passato che io ho vissuto con tanti altri, oggi morti, rallenta la tua fuga all'indietro che tutto ingoia; fermati ancora, prima che anche la memoria che ti fa vivo, si sommerga con me e mi faccia raggiungere i miei morti.
Il passato è il fascino dei fascini, appunto perchè ci dà una sete, che non si appaga mai e perchè come tutte le forme dell'infinito e dell'impalpabile, non ci sazia mai, deliziandoci sempre.
Ciò che proviamo, fissando lo sguardo nel passato, non è gioia e non è dolore, ma è malinconia; è, come lo disse Victor Hugo, «un crépuscule, dans le quel le souffrance s'y fond dans une sombre joie; aggiungendo poi sublimemente: la mélancolie c'est le boneheur d'ètre triste.» E con meno parole e genio eguale cantò lo Shelley:
Sweet though in sadness.
E se voi che mi ascoltate avete ancora tutti i vostri capelli neri e non siete disposti a fare con tue un viaggio nelle nebbie della malinconia; se invece avete il pessimismo di moda del presente, vi consolerete, vedendo quanta strada si sia percorsa in questi 50 anni, che ci separano dal 18 marzo 1848.
Io non sono ancora decrepito: eppure io ho viaggiato nel primo treno di ferrovia nel 38, ho conosciuti i fiammiferi ad immersione, e ho veduto la prima lampada a gas. E questo per il progresso materiale. Quanto al politico e al civile basti una citazione sola.
S'aveva in famiglia una villetta a Cannero sul Lago Maggiore e si viveva a Milano. Or bene. Cannero era sulla costa piemontese e si doveva chiedere il passaporto al Governo austriaco, e ci volevano almeno 15 giorni e la mamma doveva presentare il consenso del marito in carta bollata!
Ma io non vi ho invitato a fare della filosofia o a cantarvi un inno alla malinconia, soggetto caro che mi occupa da un anno e che, Dio volendo, si trasformerà in un libro. Torniamo dunque sulle barricate di Milano.
Chi ha fatto le cinque giornate?
Tutti e nessuno.
Le rivoluzioni son come la febbre. Quando i primi brividi accapponano la pelle e ci fanno battere i denti, quando poco dopo il sangue si accende e il termometro ci dice inesorabilmente: tu hai la febbre; il volgo non vede che lei e crede che il male, che pure ci porterà alla tomba, è piombato su di noi, come un fulmine a ciel sereno. E invece la febbre è l'ultima scena di un dramma preparato da lungo tempo dietro le quinte. Abbiamo respirato un'aria infetta, dove si annidavano bacilli insidiosi: sono entrati in noi e hanno percorso tutte le vie dei nostri organi, circolando nel sangue. Altri bacilli li hanno combattuti, ma sono stati vinti. Gli invasori hanno trovato il terreno libero e son diventati padroni del campo. E ora stanno vivendo alle nostre spese e secernono veleni e il sangue arde e i nervi inondati da un'onda troppo calda si ribellano e sussultano. Il respiro è angoscioso; alla coscienza di una vita tranquilla e lieta tien dietro il malessere di tutti i visceri, di tutti i muscoli. Perfino il cervello, che pili d'ogni altro viscere resiste alle lotte, alle invasioni, alle insidie, perchè è responsabile di tutte quante le vite sparse nei suoi Stati; soffre, vacilla e delira.
Ecco la febbre, ed ecco la rivoluzione.
E come nella febbre due elementi contrari si combattono con incerto successo, e come essa può essere seguita dalla vittoria, cioè dalla salute; così può distruggere l'organismo o lasciarlo così debole, da farlo facile preda di altre febbri o di altri malanni.
Così nelle rivoluzioni i due avversarli che vengono in lotta si urtano, si attaccano, si mordono e si feriscono, finchè l'uno sovrasti all'altro, e lo vinca, lasciandolo morto o ferito.
Nella rivoluzione milanese, tutto era pronto e preparato da lunga mano. – La polvere era accumulata nel sottosuolo, nei sotterranei, nei pili sottili meandri della vita nazionale. Non mancava che la scintilla, e questa guizzò nell'aria di Milano il 18 di marzo.
Noi lombardi eravamo italiani come i piemontesi, come voi altri gentili toscani, e invece a vent'anni si doveva vestire l'uniforme del giallo e del nero
Colori esecrabili
A un italo cuore.
I nostri vicini avevano un re italiano: noi avevamo il nostro re a Vienna, e da Vienna, ci venivano leggi, maestri, soldati.
E prima di essere italiani eravamo uomini, e i nostri polmoni si sentivano capaci di respirare l'aria della libertà; quella che respiravano gli Inglesi, gli Americani, tanti altri popoli. Avevamo nati nelle nostre mura il Manzoni, Carlo Porta, il Parini, e nelle scuole dovevamo leggere libri tradotti dal tedesco e da chi non sapeva l'italiano. Nessun libro poteva apparire, nessun giornale si poteva leggere, senza che libro e giornale passassero prima tra i denti fitti e crudeli della censura. Da quei denti nulla usciva, che non fosse lacerato, storpiato, malmenato.
Ci sentivamo italiani e dovevamo essere nient'altro che sudditi austriaci. Ci sentivano uomini civili e degni di libertà, e non potevamo muoverci senza il permesso di poliziotti, di censori, di passaporti.
L'uomo, che cade e si trova rinchiuso in una fogna, cerca l'aria pura e unghie e muscoli punta e titanizza per cercarla. Si lacera le unghie, si spezza le membra, si lacera i polmoni colle grida; ma vuol l'aria, perchè l'aria vien prima del pane, prima dell'amore, prima della luce. O respirare o morire.
E le rivoluzioni sono gli sforzi di un popolo, che vuole quell'aria dei polmoni collettivi, che è la libertà. O morire o esser liberi.
L'uomo caduto nella fogna che lo asfissia, non misura le proprie forze, nè calcola le speranze della salvezza; ma lotta, si agita e grida. O morire o respirare.
E il popolo senza libertà non conta i nemici, non pesa le speranze, ma lotta e grida. O morire o esser libero.
Ecco la rivoluzione, or vincitrice, or soccombente; ma sempre febbre sociale, preparata da lunga mano, dal lento assorbimento dei miasmi della tirannide. Ed ecco anche la rivoluzione di Milano, che potè sembrare un miracolo, e non fu che una delle pagine di storia, che scrisse la vittoria del diritto contro il dispotismo; la vittoria di pochi che avevano ragione, contro i molti che avevano torto; ciò che non succede ogni giorno.
Ecco le cinque giornate, nelle quali una popolazione inerme, senza generali, senza cannoni, che si arma svaligiando le botteghe degli armaiuoli e le collezioni archeologiche, che si batte con un esercito di 15,000 uomini guidati dal Radetzky; ottimo generale, che ha cannoni, razzi alla Congrève, baionette a mille e mille, e mitraglia.
La sera del 17 marzo ed anche la mattina del 18, nessun milanese pensava che sarebbe scoppiata la rivoluzione. Io poi meno di tutti, che ero un giovanetto, quasi un fanciullo. Tanto ero gracile e sottile e l'onor del mento era più un desiderio che una realtà.
Erano poco più delle 10 o delle 11 del mattino, quando dopo aver studiato fisica (ero nel Liceo) col mio condiscepolo Boselli per prepararci all'esame e dopo aver fatto colazione, mi affacciai alla finestra che dava sulla piazza di San Giovanni in Conca, dove è il Liceo, e vidi la piazza e le strade prese da pànico. Erano i brividi della febbre che incominciava. Chi correva, chi fuggiva. Servi, cameriere coi bimbi che non conducevano a scuola, ma che erano andati a riprendere, e che dal passo concitato si vedeva che li riconducevano a casa. Vedo chiudere le porte di molte case e dalle finestre semiaperte e diffidenti affacciarsi gente curiosa, che guarda nelle vie e sulle piazze.
Corro nel cortile, che nelle case lombarde è come la piazza della casa, e trovo che i vicini hanno sentito lo stesso bisogno che ho sentito io; quello di rivolgersi domande e aspettar risposte; di sapere perchè si corre, si fugge.
Le domande si incrociano colle risposte, si parla in due, in tre; si interrompe chi parla e si fa parlare chi tace. Raccolgo notizie confuse, incerte, contraddittorie.
Sento dire che a Porta Renza vi sono uomini attruppati, chi dice di popolo armato, chi di austriaci pronti alla lotta. Si assicura che sono cittadini e che hanno una bandiera tricolore. – Al Broletto i cittadini fanno folla per iscriversi nei ruoli della guardia civica, che nasceva per la prima volta.
Riporto, correndo su per le scale, le notizie raccolte. La mamma manda subito la nostra balia, rimasta cameriera in casa da tanti anni, a riprendere mio fratello Emilio e riportarlo a casa.
Mi ero offerto io, ma la mamma, che era a letto malata, non volle. – La balia parte, ma non ritorna. I minuti ci sembran secoli. La mamma salta dal letto, si veste, sta alla finestra a spiare il sospirato ritorno. – Se la balia non si vede, si vestirà e colla febbre in corpo andrà essa stessa a cercar di Emilio.
Io poi avrei accompagnato la mamma: questo nessuno poteva impedirmelo, ma balia e Emilio ritornano. Vengono in furia, correndo anch'essi. Pare che in questi giorni tutti debbano correre.
Abbracciato e baciato Emilio, stiamo tutti alla finestra, divenuta il nostro osservatorio.
Passan gruppetti di uomini, di giovani, colle coccarde tricolori all'occhiello e gridano: Viva la Repubblica: Viva Pio IX. – Molti sono inermi, ma altri hanno spade, bastoni armati, poche pistole o fucili da caccia.
Dirimpetto alla nostra casa vi è una gran sostra di legna, e tre o quattro giovanotti armati di coccarde picchiano, ma invano. La porta è chiusa. Se non si apre la porta, incendieranno il magazzino delle legna. Questa minaccia si fa anche alle case vicine, e sostra e case si aprono.
E là entrano e se ne cava un gran numero di casse, di scale, di stie e si trascinano in piazza e si gettano a traverso la via. Io non sapevo che cosa fosse una barricata, e mi si dice che tutti quegli oggetti devono servire ad impedire il passaggio della cavalleria. Son quelle le barricate, fortezze del popolo delle città contro le truppe regolari.
Ma ecco che ad uno di quei rivoluzionari viene l'idea di aprire il magazzino delle carrozze vicereali, che è appunto nella vecchia e abbandonata chiesa di San Giovanni in Conca.
Qui non si può picchiare, nè suonare il campanello per farsi aprire, perchè nel magazzino non stanno di guardia che i topi. Conviene dunque buttar giù la porta, e a colpi di ascie, di martelli, di grossi pali, si sfondano le vecchie tavole e se ne cavan venti e più carrozze coperte d'oro, di festoni, di ghirigori, campate in alto su ruote colossali, ballonzolanti sulle loro quattro gambe. Si portano a braccia di popolo, fra grida, fra urli di evviva e di gioia, e si rovesciano all'entrata delle vie, che sboccano nella piazza, divenuta così una fortezza.
Mentre le carrozze vicereali divengono barricate e vanno a gambe all'aria, alcuni cittadini hanno portato una scala e l'hanno appoggiata alla porta del Liceo di Sant'Alessandro, dove campeggia l'aquila austriaca e in men che non lo dico l'hanno buttata giù a colpi di scure e di martello. E chi sta ai piedi della scala la rompe fra grida e urli e risate assordanti, e coi piedi vi saltan sopra e la calpestano e la fanno a pezzi. Io scendo precipitoso dalle scale con un coltellaccio di cucina, e voglio anch'io ferire quell'aquila grifagna, che per meglio mangiar due becchi tiene; voglio anch'io avere una reliquia di quel cadavere.
Ma ahimè, le mamme e i babbi della nostra casa hanno barricata la porta, e non s'esce. Allora da una inferriata di una camera a pian terreno chiamo uno dei fortunati demolitori dell'aquila grifagna, e che era un mio condiscepolo. Porgo il mio coltellaccio a lui che era inerme. Lo adoperi, e dia a lui e a me un osso, anche una scheggia sola di questo cadavere imperiale.
Quel giorno si passò fino a sera alla finestra, passando di angoscia in angoscia, di trepidazione in trepidazione.
Fatte le barricate, rovesciati i carrozzoni vicereali, demolito lo stemma del liceo, si sentirono da lungi, a lunghi intervalli, delle schioppettate, poi qualche campana che suonava a martello e poi e poi, con un crescendo formidabile di triste augurio, anche un colpo di cannone.
Ma dunque la battaglia si era impegnata, ma dunque la città di Milano aveva sollevato lo stendardo della rivoluzione, ma dunque si battevano. – Da una parte un esercito ben armato, con cannoni appoggiati ad un castello, dall'altra cittadini inermi o quasi, che senza misurar le proprie forze volevano la libertà.
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