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Various
La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I / Seconda serie – Storia

LA POLITICA DEGLI STATI ITALIANI DAL 1831 AL 1846

CONFERENZA
DI
R. BONFADINI

Il Congresso di Vienna aveva dato all'Italia un ordinamento territoriale e politico assai ripugnante alle aspirazioni che la Rivoluzione francese e i regimi napoleonici vi avevano alimentato.

Restituendo la corona delle Due Sicilie a quel re Ferdinando che nel 1799 vi aveva esercitato così feroci vendette, la Santa Alleanza non gl'impose nessuna riserva, nè per gli antichi diritti costituzionali mantenuti costantemente, in maggiore o minore misura, nell'isola di Sicilia, nè per le nuove esigenze di civiltà amministrativa, sorte nella parte continentale del Regno, durante il governo del re Gioachino Murat.

Così pure, ricollocando sotto l'autorità del Papa i territorî dell'antico Patrimonio, le Legazioni, le Marche e l'Umbria, non si dava a quelle popolazioni nessuna speranza che il vecchio regime sacerdotale potesse aprirsi a nessun miglioramento di legislazione o di indirizzo politico.

Ritornavano in Toscana i principi di Lorena; ed era forse quella la parte d'Italia meno offesa nei suoi sentimenti, vista l'antica e mite tradizione di governo di quella Casa.

Ma i ducati di Modena, di Parma, di Lucca, stabiliti solo per convenienza di principi e di principesse, rappresentavano la forma più acre del dispotismo, non temperato da nessuna responsabilità internazionale, da nessuna rispettabilità dei governanti.

Due repubbliche di antichissima origine, Genova e Venezia, invece di essere ricostituite come si ricostituiva quasi ogni cosa nelle condizioni anteriori al 1796, venivano aggregate a due grossi Stati; più fortunata Genova, che almeno serviva ad arrotondare uno Stato interamente italiano; più offesa nei suoi sentimenti e nel suo orgoglio Venezia, che diventava provincia di un Impero straniero, a cui si concedeva anche l'ambíto riacquisto della Lombardia.

La casa di Savoia, meno l'annessione di Genova, rientrava a un di presso ne' suoi territorî antichi; e per verità dalla Santa Alleanza avrebbe meritato maggiori riguardi, in ragione dell'aspro trattamento subíto dal predominio francese e della costante fedeltà da essa serbata verso i governi di diritto divino.

Ma il Congresso di Vienna era stato, in ogni sua deliberazione, il trionfo dei forti. E il Piemonte non aveva potuto uscire più saldo da quelle stipulazioni, soprattutto per l'ostilità dell'Austria, che nutriva contro la casa di Savoia una diffidenza intuitiva, paralizzata ne' suoi effetti maggiori soltanto dalla benevolenza della politica russa.

L'Austria poi s'era assicurata una perfetta dominazione su tutte le cose della penisola italiana, vuoi pel possesso del magnifico territorio lombardo-veneto, così ricco di prodotti, di abitanti, di strade e di fortezze, vuoi per la stretta parentela della casa d'Habsburg con quasi tutti i principi minori d'Italia, vuoi per l'immensa superiorità delle sue forze militari, accresciuta da speciali trattati, che ponevano interamente a sua disposizione la politica, le armi e le polizie dei principati rifatti lungo la valle del Po.

In complesso, può dirsi che questo ordinamento rappresentava soltanto interessi di principi e di Case regnanti. Nessun interesse di popolo v'era stato consultato o contemplato. Fiera de' suoi successi militari contro il colosso napoleonico, la Santa Alleanza s'era illusa che il mondo dovesse, d'allora in poi, essere governato dalla sola forza, e che questa sola meritasse d'avere organismi e guarentigie.

Non tardò a comprendere di essersi ingannata; ma intanto il suo inganno servì per molti anni a far persistere il governo austriaco, suo rappresentante in Italia, nell'uso, anzi nell'abuso della forza: e così sorse, quasi immediatamente nella penisola, il sentimento della resistenza contro gli ordinamenti politici e territoriali, imposti all'Italia dai trattati del 1815.

Com'è naturale, non avendo mezzi di esprimersi nè colla stampa, nè con forme di rappresentanza, gelosamente vietate dai regimi ristabiliti, il malcontento pubblico s'avviò verso i metodi della cospirazione. Trovatosi ad un tratto come chiuso in una camicia di forza, dopo avere passato parecchi anni sotto governi inspirati a principî più o meno tumultuosi di libertà, il popolo italiano non seppe acquetarsi a così improvviso e così duro mutamento d'istituzioni; molto più avendo la coscienza di essere stato anche prima piuttosto vittima che complice degli avvenimenti. Non potendo manifestarsi alla luce del sole, senza pericolo di prigione o di capestro, cercò le vie sotterranee. E ne avvenne ciò che avviene di quelle terribili sostanze aeriformi, che, trovandosi chiuso il passaggio per le viscere della terra, prorompono e diventano terremoti.

Di lì quel carattere speciale di monotonia, che impronta di sè la politica degli Stati italiani, dal 1830, anzi addirittura dal 1815 fino al 1846.

Ad eccezione di uno solo, in tutti quegli organismi governativi non parve penetrare durante tutti quegli anni verun pensiero. Parve anzi che l'unica ed accanita preoccupazione di quei regimi fosse la guerra al pensiero, sotto qualunque forma e da qualunque compagine uscisse. Mentre tante novità sorgevano e si discutevano in Europa, dalla ricostituzione della Grecia a quella del Belgio, dalle insurrezioni iberiche all'insurrezione polacca; mentre tante questioni nuove di amministrazione e di governo balzavano lucidamente dalla virile eloquenza dei Parlamenti di Francia e d'Inghilterra, in Italia una sola attività prendeva il posto di tutte, un'attività di spionaggio e di polizia. Ricostituiti sull'unica base di un interesse dinastico, quegli Stati non ebbero dunque altro proposito che di mantenere la base. Purchè la casa del Principe fosse tranquilla e ben provveduta, l'interesse pubblico non esigeva di più. Se di questa situazione qualche Principe abusava per uscire dal proprio diritto e violare, a danno dei sudditi, i doveri della moralità e dell'onestà, l'unica conseguenza era la necessità di una maggiore oculatezza, talvolta di una maggiore ferocia negli stromenti di polizia, per reprimere sdegni legittimi propositi di resistenza. Al postutto, le solidarietà nel male erano assicurate dall'interesse comune, e su tutte stendeva la sua indulgenza irresponsabile e sistematica la politica protettrice del principe di Metternich.

Nulla dunque distraeva quei ministri di Stato dall'esclusiva cura di perfezionare i metodi della polizia. E i dispacci di tutti quegli ambasciatori, quei consoli, quei diplomatici, diretti dalla suprema saviezza dei Canosa, dei Riccini, dei Lambruschini, arieggiano rapporti di questura, piuttosto che avvedimenti di uomini politici. Ora si tratta d'impedire un colloquio sospetto fra la marchesa Camerata e il prigioniero Duca di Reichstadt, ora di indagare le relazioni personali dei membri della famiglia Bonaparte in Roma, ora di vigilare perchè Achille Murat non si muova da Londra per lidi ignoti. V'è perfino un progetto di deportare tutti i liberali al di là dei mari europei; progetto che si ruppe unicamente contro la ripugnanza manifestata dai governi di Torino e di Firenze.

Centro di tutta questa reazione appassionata ed imprevidente fu soprattutto il seggio pontificio, sul quale, al principio del 1831, era venuto ad assidersi, per intrighi austriaci e spagnoli, un monaco d'illibati costumi, di mente corta e di pregiudizi fanatici, Mauro Cappellari della Colomba.

Rappresentato, ne' suoi rapporti di governo, da due personaggi, egualmente fanatici, il cardinale Bernetti e il cardinale Lambruschini, tutta la sua vita politica fu una lotta fiera e sanguinosa contro i suoi sudditi; sui quali fece pesare replicatamente l'onta dell'occupazione austriaca, richiesta ad ogni stormir di foglia e accordata anche più volonterosamente che non si chiedesse.

Di questa politica tutta a base di persecuzioni, di repressioni e di supplizi, si mostrava fiero censore un forte uomo politico italiano, Pellegrino Rossi; il quale scriveva al ministro degli affari esteri di Francia: «Se voi sapeste come tornerebbe agevole soddisfare i voti di queste popolazioni, senza nulla riversare, nulla snaturare! Tutta la parte sana non domanda che un poco d'ordine e di buon senso nell'amministrazione. Che s'impianti un governo assennato, e issofatto i demagoghi si troveranno isolati e impotenti.»

Ma questi consigli della ragione, dei quali parecchi governi italiani, e prima e poi, avrebbero dovuto sentire l'opportunità, non tornavano a grado del governo austriaco, gran consigliere e gran protettore di Gregorio XVI; poichè il cardine fondamentale della politica metternicchiana in Italia fu sempre d'impedire che i principi indigeni accettassero progressi di legislazione; allo scopo di poter dimostrare che le provincie amministrate meglio erano quelle governate dalla Casa d'Austria, e trarne così, agli occhi dell'Europa, titolo a rendere sempre più durevole e più esclusiva l'influenza austriaca nelle cose della penisola.

Sicchè i metodi del Bernetti e del Lambruschini continuavano a trionfare contro tutti gli sforzi dei cospiratori interni e contro le timide rimostranze della diplomazia europea. Continuava lo scandalo delle dilapidazioni e dei favoriti, continuava la preminenza nelle cose dello Stato ora del barbiere Moroni, ora del colonnello Freddi, ora dell'agente austriaco Sebregondi, ora del prete Abbo, spergiuro e infanticida. In questa vergogna di cose s'andava rapidamente spegnendo ogni prestigio della sovranità temporale esercitata dal Sommo Pontefice; tanto che, fin dal 1837, l'inviato sardo a Roma, marchese Crosa, non si peritava di scrivere al conte Solaro della Margherita: «È qui comune idea fra le persone che spingono lo sguardo nel lontano avvenire, il pensare che qualora prosegua in questo paese l'attuale ordinamento di cose, debba col tempo aver luogo qualche crisi essenziale; e la ipotesi la più plausibile sarebbe quella di vedere la gran Roma ridotta alla mera supremazia ecclesiastica, non conservando che l'ombra del temporale…» Il sagace diplomatico piemontese intravedeva già, fra gli errori e fra gli orrori del tempo, la soluzione soddisfacente, e, senza confessarlo a se stesso, tradiva il pensiero che, dalla tribuna parlamentare, avrebbe proclamato, ventiquattr'anni dopo, Camillo di Cavour!

Per allora, nulla si mutava e nulla si voleva mutare nello Stato Pontificio, a cui soltanto avrebbe dato una scossa, di proporzioni impreviste, il Papa futuro del 1846. Alle potenze europee, preoccupate di questa perpetua alternativa fra rivoluzioni e reazioni, la curia romana prometteva riforme, col preciso proposito di non attuarle; e i diplomatici d'allora si rassegnavano ad essere ingannati, come si rassegna sempre la diplomazia ad ogni inganno che serva alla pace d'un quarto d'ora.

L'Austria entrava ed usciva dai territorî papali come da casa sua; la Francia occupava Ancona, con gran fracasso di frasi, poi rimpiattava la sua sterile iniziativa dietro le più umilianti dichiarazioni imposte dal cardinale Bernetti. Nel tutto assieme, trionfo di prepotenza, di reazione e d'ipocrisia, da cui la provvidenza storica si preparava a trarre i germi del fatto nuovo.

Poco al di sopra o poco al disotto della politica pontificia stava quella del duca di Modena, Francesco IV; al quale per rifare Cesare Borgia mancò l'audacia e per rifare Filippo II mancò l'intelligenza.

Dell'uno e dell'altro però ebbe l'istinto dispotico, le morbose ambizioni, l'animo freddamente feroce. Regnava da alcuni anni, quando scoppiò in Francia la rivoluzione del 1830. Una grande illusione s'era da quel rivolgimento diffusa nell'animo degli Italiani, specialmente del centro; l'illusione che da Parigi uscisse energico aiuto alle rivendicazioni liberali d'Italia. Il generale Pepe aveva capitanato queste illusioni, destreggiandosi presso il generale Lafayette, perchè accordasse alcuni soccorsi di fucili e di denaro.

Speranze simili erano penetrate anche in un uomo d'alto animo e di larghi concetti, Ciro Menotti, modenese e commerciante di professione. Poco fiducioso in moti popolari di carattere repubblicano, egli non aveva avuto difficoltà ad aprirsi politicamente col suo principe, il duca Francesco IV, di cui conosceva la cupa indole, ma di cui aveva indovinato la segreta ambizione.

Sfiduciato di ottenere il trono di Sardegna, al quale per tanti anni aveva rivolto sguardi ed intrighi, Francesco IV suppose che la rivoluzione di Francia, riaprendo l'èra dei mutamenti italiani, gli avrebbe forse permesso di ricomporsi un trono più ampio, sui dominî dei principati vicini. Anche il titolo di re d'Italia pare sia balenato al suo pensiero. Sicchè, dimentico per un istante de' suoi fanatismi legittimisti, non respinse i discorsi di Ciro Menotti, che sembrava poter essere chiamato da prossimi avvenimenti a notevoli influenze politiche.

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