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Edward Gibbon
Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3

CAPITOLO XVI

Condotta del Governo romano verso i Cristiani, dal Regno di Nerone fino a quello di Costantino

Se prendiamo a considerar seriamente la purità della Religione Cristiana, la santità de' suoi morali precetti, e l'innocente non meno che austera vita della maggior parte di quelli, che ne' primi tempi abbracciarono la fede dell'Evangelio, saremo naturalmente indotti a supporre, che anche dal Mondo infedele risguardata si fosse con la dovuta riverenza una dottrina così benefica; che le persone sapienti e culte, quantunque deridendo i miracoli, stimato avessero le virtù della nuova setta, e che i Magistrati avesser protetto, invece di perseguitare, un ordine di uomini, che prestava la più sommessa obbedienza alle leggi, sebbene sfuggisse le attive cure della guerra e del governo. Dall'altra parte se noi riflettiamo che la tolleranza del Politeismo era universale ed invariabilmente sostenuta dalla fede del Popolo, dall'incredulità de' filosofi, e dalla politica del Senato e degl'Imperatori di Roma, non sappiam vedere qual nuova colpa i Cristiani avesser commesso, e da che mai fosse stata provocata ed inasprita la blanda indifferenza dell'Antichità, e quali nuovi motivi potessero indurre i Principi Romani, che lasciavan sussistere in pace sotto il lor moderato dominio mille diverse forme di religioni senza prendervi alcun interesse, a punir severamente una parte de' loro sudditi, che si erano scelta una singolare, ma innocente maniera di fede e di culto.

Sembra che la religiosa politica degli antichi prendesse un più rigido ed intollerante carattere per opporsi al progresso del Cristianesimo. Circa ottant'anni dopo la morte di Cristo, soggiacquero all'estremo supplizio gl'innocenti seguaci di lui per sentenza di un Proconsole dell'indole più amabile e filosofica, e secondo le leggi di un Imperatore, riguardevole per la saviezza e giustizia del suo generale governo. Le apologie, che più volte indirizzate furono ai successori di Traiano, son piene de' più patetici lamenti, perchè fra tutti i sudditi del Romano Impero fossero esclusi dal partecipare i vantaggi di quel fausto governo i soli Cristiani, che obbedivano ai dettami della coscienza, e ne imploravan la libertà. Sono stati diligentemente raccolti i supplizi di alcuni pochi martiri eminenti; e da quel tempo, in cui s'ottenne il supremo potere dal Cristianesimo, i Direttori della Chiesa non hanno impiegata minor cura nel discuoprire la crudeltà, che nell'imitar la condotta de' Pagani loro avversari. Lo scopo del presente capitolo è di separare (s'è possibile) i pochi autentici ed interessanti fatti da una indigesta massa di finzioni e di errori, e di riferire in un modo ragionevole e chiaro le cagioni, l'estensione, la durata e le più importanti circostante delle persecuzioni, alle quali esposti furono i primi Cristiani.

I seguaci di una Religione perseguitata, oppressi dal timore, animati dal risentimento, e riscaldati forse dall'entusiasmo, rade volte si trovano in uno stato di mente, proprio ad investigar con tranquillità o a stimar con candore i motivi de' lor nemici, che spesso sfuggono anche all'imparziale ed acuta vista di quelli, che trovansi ad una sicura distanza dal fuoco della persecuzione. Alla condotta degl'Imperatori verso i primitivi Cristiani attribuita si è una ragione, la quale può sembrare molto speciosa e probabile, perchè si deduce appunto dal genio ben noto del Politeismo. È stato già osservato, che la religiosa concordia del mondo era principalmente sostenuta dall'assenso e dalla riverenza, che le nazioni dell'Antichità ciecamente professavano per le rispettive lor tradizioni e ceremonie. Si poteva dunque aspettare, che le medesime fossero per unirsi con isdegno contro una setta od un popolo, che si separasse dalla comunione dell'uman genere, e pretendesse di posseder esclusivamente la cognizione di Dio, sdegnando come empia ed idolatrica qualunque altra forma di culto, eccettuata la propria. Si mantenevano i diritti della tolleranza mediante una condiscendenza reciproca: giustamente dunque ne furono spogliati quelli, che ricusavano di pagare il consueto tributo. Siccome questo si ricusò inflessibilmente dai soli Giudei, l'esame del trattamento, che loro fecero i Magistrati Romani, servirà a spiegare fino a qual segno siano queste speculazioni giustificate da' fatti, e ci condurrà a scoprire le vere cagioni della persecuzione del Cristianesimo.

Senza ripeter quello ch'è stato già detto della riverenza che avevano i Principi e i Governatori Romani pel Tempio di Gerusalemme, osserveremo solamente che tutte le circostanze che accompagnarono e seguirono la distruzione del Tempio e della città, potevano inasprir gli animi de' conquistatori, ed autorizzare la persecuzion religiosa co' più speciosi argomenti di giustizia politica e di pubblica sicurezza. Dal regno di Nerone fino a quello di Antonino Pio, dimostrarono i Giudei tal fiera intolleranza del dominio di Roma, che più volte proruppero in sollevazioni ed in stragi le più furiose. L'umanità si scuote al racconto delle orribili crudeltà, che commisero nelle città dell'Egitto, di Cipro e di Cirene, dove abitavano, fingendo una proditoria amicizia co' Nazionali, che non avevano sospetto alcuno verso di loro1: e siam quasi tentati ad applaudire la rigida rappresaglia, che dalle armi delle Legioni si usò contro un genere di fanatici, la barbara e credula superstizione de' quali pareva, che li rendesse implacabili nemici non solo del governo Romano, ma anche dell'uman genere2. L'entusiasmo degli Ebrei sostenevasi dall'opinione, ch'essi non potevan legittimamente pagar tributi ad un Sovrano idolatra, e dalla seducente promessa tratta dai loro antichi oracoli, che in breve sarebbe nato un Messia conquistatore, destinato a rompere le loro catene, e a trasferire ai favoriti del Cielo l'impero della Terra. Il celebre Barcocheba, coll'annunziarsi che fece come loro, da lungo tempo aspettato, liberatore, e col convocar tutti i discendenti di Abramo per sostener la speranza d'Israele, raccolse un formidabile esercito, con cui resistè per due anni al potere dell'Imperatore Adriano3.

Ad onta di queste ripetute provocazioni, finì l'ira de' Principi Romani con la vittoria; nè continuarono le loro apprensioni oltre il tempo del pericolo e della guerra. Mediante la general tolleranza del Politeismo e la mansueta indole di Antonino Pio, a' Giudei restituiti furono gli antichi lor privilegi, ed ottennero essi un'altra volta la facoltà di circoncidere i loro figli con la moderata limitazione, che non dovesser mai dare ad alcun proselito straniero quel contrassegno distintivo della stirpe Giudaica4. Quantunque i numerosi avanzi di quel popolo restassero sempre esclusi da' recinti di Gerusalemme, pure fu loro permesso di formare e di mantenere considerabili stabilimenti tanto nell'Italia che nelle Province, di acquistar la cittadinanza di Roma, di godere degli onori municipali, e di ottenere nel tempo stesso un'esenzione da' gravi e dispendiosi uffizi della società. La moderazione o il disprezzo de' Romani legalmente autorizzò la forma del governo ecclesiastico, instituito dalla vinta setta. Il Patriarca, che avea fissato la sua residenza in Tiberiade, ebbe la facoltà di eleggere i propri subalterni ministri ed apostoli, di esercitare una domestica giurisdizione, e di ricevere da' suoi dispersi fratelli una contribuzione annuale5. Nelle principali città dell'Impero frequentemente si edificarono nuove sinagoghe, e nella più solenne e pubblica forma si celebravano i sabbati, le feste e i digiuni, comandati o dalla legge Mosaica o dalle tradizioni Rabbiniche6. Questo gentil trattamento appoco appoco addolcì la feroce indole de' Giudei. Scossi dal loro sogno di profezia e di conquista, incominciarono a diportarsi da sudditi pacifici e industriosi. L'odio irreconciliabile, che avevano contro il genere umano, in luogo di prorompere in atti di violenza e di sangue, si dissipò in soddisfazioni meno pericolose. Prendevano essi tutte le occasioni per soverchiar gl'Idolatri nel commercio, e pronunziavano segrete ed ambigue imprecazioni contro il superbo regno di Edom7.

Mentre i Giudei, che rigettavano con abborrimento i Numi adorati dal lor Sovrano e da' loro consudditi, godevano ciò non ostante con libertà l'esercizio della loro insocievole religione, vi doveva esser qualche altro motivo ch'esponeva i discepoli di Cristo a quella severità, da cui ritrovavasi esente la discendenza di Abramo. La differenza fra loro è semplice e naturale, ma secondo i sentimenti dell'antichità era della massima importanza. Gli Ebrei formavano una nazione, i Cristiani una setta; e se ogni società era naturalmente portata a rispettar le sacre istituzioni de' propri vicini, le premeva altresì di perseverare in quelle de' suoi maggiori. La voce degli oracoli, i precetti de' filosofi e l'autorità delle leggi davan concordemente vigore a questa nazionale obbligazione. Per l'altera pretensione, che avevano i Giudei di una santità superiore agli altri, provocar potevano i Politeisti a risguardarli come una razza di uomini odiosa ed impura. Sdegnando il commercio con le altre nazioni, potevan meritare il loro disprezzo. Le leggi di Mosè potevano esser per la massima parte frivole o assurde: non di meno essendo queste per più secoli state ricevute da una numerosa società, i lor seguaci venivan giustificati dall'esempio dell'uman genere; ed universalmente si conveniva, che essi avevan diritto di praticare ciò che sarebbe in loro stato un delitto di trascurare. Ma questo principio, che proteggeva la sinagoga Giudaica, non dava sicurezza o favore alcuno alla primitiva Chiesa. I Cristiani abbracciando la fede dell'Evangelio, supponevansi rei di una non naturale ed imperdonabile colpa. Scioglievano essi i sacri vincoli dell'usanza e dell'educazione; violavano le religiose instituzioni del lor paese, e presuntuosamente disprezzavano ciò che i padri loro creduto avevano come vero, o rispettato come sacro. Nè tal apostasia (se ci è permesso di usare questa espressione) era di una specie parziale o locale, poichè il devoto disertore, che si ritirava da' tempj dell'Egitto o della Siria, avrebbe ugualmente sdegnato di cercare un asilo in quelli di Atene o di Cartagine. Ogni Cristiano con disprezzo rigettava le superstizioni della sua famiglia, della sua città e della sua provincia. Tutto il corpo de' Cristiani di comune accordo ricusava di aver alcun commercio con gli Dei di Roma, dell'Impero e dell'uman genere. Invano l'oppresso credente reclamava i diritti non alienabili della coscienza e del giudizio privato. Quantunque la sua situazione potesse risvegliar la pietà, i suoi argomenti non potevano mai convincere l'intelletto nè della filosofica nè della credula parte del Mondo Pagano. Argomento era di stupore per essi che uno dovesse avere scrupolo di adattarsi alla maniera di culto già stabilita, non meno che sarebbe stato se uno concepito avesse subitaneo abborrimento ai costumi, al modo di vestire, od al linguaggio del proprio paese8.

Alla sorpresa de' Pagani successe ben presto lo sdegno; e gli uomini più pii furono esposti all'ingiusta, ma pericolosa imputazione d'empietà. La malizia ed il pregiudizio si univano a rappresentare i Cristiani come una società di atei, che avendo audacissimamente attaccato le religiose costituzioni dell'Impero, meritato avevano i più severi castighi de' magistrati civili. Nella confessione, che facevano di loro fede, gloriavansi di essersi liberati da qualunque sorta di superstizione ricevuta in qualsivoglia parte del globo dal vario genio del Politeismo; non era però ugualmente chiaro qual divinità, o quale specie di culto sostituito avessero agli Dei ed a' tempj dell'antichità. La pura e sublime idea, ch'essi avevano dell'Ente supremo, sfuggiva dal grossolano concepimento del volgo Pagano, che non sapeva immaginare un Dio spirituale e solitario, il quale non si rappresentava sotto alcuna figura corporea o segno visibile, nè si adorava con la solita pompa di libazioni e di feste, di altari e di sacrifizi9. I Sapienti della Grecia e di Roma, che innalzato avevano le loro menti alla contemplazione dell'esistenza e degli attributi della prima Causa, per ragione o per vanità eran portati a riservare a se stessi o a' loro scelti discepoli il privilegio di questa filosofica devozione10. Essi erano ben lontani dall'ammettere i pregiudizi dell'uman genere, come il contrassegno della verità, ma gli consideravano come provenienti dall'original disposizione della natura umana: e supponevano che qualunque popolar forma di fede e di culto, in cui si fosse preteso di non far uso dell'aiuto de' sensi, a misura che allontanata si fosse dalla superstizione, sarebbesi trovata incapace di raffrenare i voli della fantasia, o le visioni del fanatismo. Il non curante sguardo, che gli uomini d'ingegno e di dottrina condiscendevano a gettare sopra la Rivelazione Cristiana, serviva solo a confermare la loro precipitata opinione, ed a persuaderli, che il principio dell'unità di Dio, che avrebbero potuto rispettare, veniva sfigurato dallo stravagante entusiasmo, ed annichilito dalle vane speculazioni de' nuovi settari. L'autore di un celebre dialogo, ch'è stato attribuito a Luciano, mentre affetta di trattare il misterioso soggetto della Trinità in uno stile ridicoloso e disprezzante, mostra di non conoscere la debolezza dell'umana ragione e l'imperscrutabile natura delle perfezioni Divine11.

Poteva sembrar meno sorprendente, che il fondatore del Cristianesimo fosse rispettato da' suoi Discepoli non solamente come un sapiente ed un profeta, ma che fosse anche adorato come una divinità. I Politeisti eran disposti ad ammettere ogni articolo di fede, che paresse aver qualche rassomiglianza, per quanto distante ed imperfetta si fosse, colla mitologia popolare; e le leggende di Bacco, d'Ercole, o di Esculapio preparato avevano in qualche modo la loro immaginazione all'apparire del Figlio di Dio sotto una forma umana12. Ma stupivano, che i Cristiani abbandonassero i tempj di quegli antichi Eroi, che nell'infanzia del mondo avevano inventato le arti, instituite le leggi, e domati i tiranni, o i mostri che infestavano la terra, a fine di scegliere per oggetto esclusivo del religioso lor culto un oscuro maestro, che di fresco, ed appresso un popolo barbaro era stato sacrificato o alla malizia de' propri suoi nazionali, o alla gelosia del governo Romano. Il volgo Pagano, riservando la sua gratitudine solo per i benefizi temporali, rigettava l'inestimabile dono della vita e della immortalità, che all'uman genere si offeriva da Gesù Nazareno. La sua mansueta costanza in mezzo a crudeli e volontari tormenti, la sua general benevolenza, e la sublime semplicità delle sue azioni e del suo carattere non eran sufficienti, a giudizio di quegli uomini carnali, a compensar la mancanza di fama, di dominio e di fortuna; e mentre ricusavano di ammettere lo stupendo trionfo di lui sopra le potestà delle tenebre e della morte, malamente rappresentavano o insultavan la nascita equivoca, la vita vagabonda, e l'ignominiosa morte del divino Autore del Cristianesimo13.

La reità personale, in cui ogni Cristiano era incorso nel preferire in tal modo il suo privato sentimento alla religion nazionale, veniva molto aggravata dal numero, e dall'unione de' colpevoli. Egli è ben noto, ed è già stato osservato, che la Romana politica riguardava con la massima gelosia e diffidenza qualunque associazione fra' propri sudditi, e che davansi con mano assai parca i privilegi de' corpi privati, sebbene instituiti per i più innocenti e benefici soggetti14. Le religiose assemblee dei Cristiani, che si eran separati dal culto pubblico, apparivano di una specie molto meno innocente: erano esse illegittime nel lor principio, e nelle lor conseguenze potean divenire pericolose; nè gl'Imperatori credevano di violar le leggi della giustizia, quando per la pace della società proibivano quelle segrete, ed alle volte notturne adunanze15. La pia disubbidienza de' Cristiani fece comparire la lor condotta, o forse i loro disegni in un aspetto molto più serio e colpevole: ed i Principi Romani, che avrebbero per avventura sofferto di lasciarsi piegare da una pronta sommissione, stimando interessato il lor onore nell'esecuzione de' lor comandi, qualche volta intrapresero, per mezzo di rigorosi gastighi, di domar questo spirito indipendente, che audacemente riconosceva un'autorità superiore a quella del Magistrato. Sembrava, che l'estensione e la durata di questa spirituale cospirazione la rendesse ogni giorno più meritevole del loro castigo. Abbiamo già veduto, che l'attivo e fortunato zelo de' Cristiani gli aveva insensibilmente diffusi per ogni Provincia, e quasi per ogni città dell'Impero. Pareva, che i nuovi convertiti rinunziassero alla propria famiglia e al proprio paese, e che si collegassero mediante un indissolubil nodo d'unione con una particolar società, che per ogni dove assumeva un carattere diverso dal resto del genere umano. Il tristo ed austero aspetto, che avevano, l'abborrimento per gli affari e piaceri comuni della vita, e le lor frequenti predizioni d'imminenti calamità16 inspiravano a' Pagani l'apprensione di qualche pericolo, che provenir potesse dalla nuova setta, ch'era tanto più sospetta quanto era più oscura. «Qualunque esser possa (dice Plinio) il principio della loro condotta, pare, che l'inflessibile ostinazione loro sia meritevole di gastigo17

Le cautele, con le quali i Discepoli di Cristo celebravano gli uffizi della religione, furono a principio dettate dal timore e dalla necessità, ma in appresso si continuarono per elezione. Con imitare la tremenda secretezza, che usavasi ne' misteri Eleusini, si eran lusingati i Cristiani, che rendute avrebbero più rispettabili agli occhi del Mondo Pagano le sacre loro instituzioni18

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