Scisma de' Greci e de' Latini. Regno e carattere di Amurat. Crociata di Ladislao Re d'Ungheria. Sconfitta e morte del medesimo. Giovanni Uniade. Scanderbeg. Costantino Paleologo, ultimo Imperatore di Costantinopoli.
Un Greco eloquente, padre delle scuole dell'Italia, ha paragonate fra loro e celebrate le città di Roma e di Costantinopoli1. Il sentimento che Manuele Crisogoras provò alla vista dell'antica Capitale del Mondo, sede de' suoi antenati, superò tutte le idee che egli avea potuto da prima formarsene; nè biasimò d'indi in poi l'antico sofista che esclamava essere Roma un soggiorno non fatto per gli uomini, ma per gli Dei. Questi Dei e quegli uomini erano spariti da lungo tempo; ma un entusiasmo eccitato da nobili ricordanze trovava nella maestà delle rovine di Roma l'immagine della sua antica prosperità. I monumenti de' Consoli e de' Cesari, de' Martiri e degli Appostoli, eccitavano per ogni lato la curiosità del filosofo e del cristiano. Manuele confessò, che l'armi e la religione di Roma erano state predestinate a regnar sempre nell'Universo; ma questa venerazione che gl'inspiravano le auguste bellezze della madre patria, nol fecero dimentico della più leggiadra fra le sue figlie, della Metropoli nel cui seno era nato. Mosso da fervor patrio e da sentimento di verità il celebre Bizantino, esalta con uno stile condegno i vantaggi naturali ed eterni di Costantinopoli, magnificando poi ancora i men saldi monumenti della potenza e dell'arti che l'aveano abbellita. Ma in questa seconda parte, osserva modestamente che la perfezione della copia ridonda a maggior gloria dell'originale, e che è un contento ai genitori il vedersi rinnovellati e perfin superati dai proprj figli. «Costantinopoli, dice l'Oratore, è situata sopra di una collina tra l'Europa e l'Asia, tra l'Arcipelago e il Mar Nero. Essa congiunge, a comune vantaggio delle nazioni, due mari e due continenti, tenendo a suo grado aperte, o chiuse le porte del commercio del Mondo. Il porto di essa, cinto da ogni banda dal continente e dal mare, è il più vasto e sicuro fra tutti i porti dell'Universo. Le porte e le mura di Costantinopoli possono essere paragonate a quelle di Babilonia. Alte, numerose e saldissime ne sono le torri; il secondo muro, o l'esterna fortificazione, basterebbe alla difesa e alla maestà di una Capitale men rilevante, e potendosi introdurre nelle sue fosse una grossa e rapida corrente, è lecito chiamarla un'isola artificiale, atta ad essere alternativamente circondata siccome Atene2 dalla terra e dalle acque». Vengono citate due cagioni che naturalmente, e con efficacia, dovettero contribuire a far perfetto il disegno della nuova Roma. Il Principe che ne fu il fondatore, come quegli che comandava alle più illustri nazioni del Mondo, fece servire con vantaggio alla esecuzione de' suoi divisamenti le scienze e le arti della Grecia, e la potenza di Roma. Nella maggior parte dell'altre città, la grandezza loro fu proporzionata ai tempi e agli avvenimenti, onde in mezzo ai pregi delle medesime, scorgesi una mescolanza di disordine e di deformità; gli abitanti, affezionati al paese ove nacquero, nè vorrebbero abbandonarlo, nè possono correggere i vizj del secolo o del clima, nè gli errori de' loro antenati. Ma il disegno di Costantinopoli e la sua esecuzione furono l'opera libera di una sola mente, e a questo primitivo modello apportarono perfezione lo zelo obbediente de' sudditi e il fervore de' successori di Costantino. A questa grande fabbrica somministrarono i marmi le isole addiacenti che ne erano provvedutissime; gli altri materiali vennero trasportati dal fondo dell'Europa e dell'Asia; la costruzione de' pubblici e de' privati edifizj, de' palagi, delle chiese, degli acquedotti, delle cisterne, de' portici, delle colonne, de' bagni, e degli ippodromi, corrispose nelle dimensioni alla grandezza della Capitale dell'Oriente. Il superfluo delle ricchezze della città si sparse lungo le rive dell'Europa e dell'Asia; onde i dintorni di Bisanzo fino all'Eussino, all'Ellesponto e al gran Muraglione somigliano ad un popolato sobborgo, o ad una serie continuata di giardini. In questa seducente pittura, il descrittore confonde con oratoria destrezza il passato e il presente, i giorni della prosperità e quelli dello scadimento; ma la verità sfuggendogli, quasi a sua non saputa, dal labbro, sospirando confessa che la sua misera patria non è più altro se non se l'ombra o il sepolcro della superba Bisanzo. Le antiche opere di scoltura erano state sformate del cieco zelo de' Cristiani, o dalla violenza de' Barbari. I più belli edifizj demoliti; arsi i preziosi marmi di Paro o della Numidia per farne calce, o convertiti in trivialissimi usi. Un nudo piedistallo indicava il luogo ove sorsero le statue più rinomate: nè poteano in gran parte giudicarsi le dimensioni delle colonne che dai rimasugli di qualche infranto capitello. Dispersi vedeansi sul suolo i frantumi delle tombe degl'Imperatori; e i turbini e i tremuoti avevano aiutato il tempo in queste opere di distruzione; intanto che una volgar tradizione ornavano i vôti intervalli di monumenti favolosi d'oro o d'argento. Però Manuele eccettua da queste meraviglie, che non aveano esistenza se non se nella memoria degli uomini, o forse anche non l'ebbero che nella loro immaginazione, il pilastro di porfido, le colonne e il colosso di Giustiniano3, la chiesa e soprattutto la cupola di S. Sofia, con cui termina convenevolmente il suo quadro, «poichè, non possono, dic'egli esserne in assai degno modo descritte le bellezze, ned è lecito nomar altri monumenti dopo avere favellato di questa». Egli però dimentica di notare che, nel secolo precedente, i fondamenti del colosso e della chiesa erano stati sostenuti e riparati per le solerti cure di Andronico il Vecchio. Trent'anni dopo che questo Imperatore si era creduto affortificare il Tempio di S. Sofia con due nuovi puntelli o piramidi, crollò d'improvviso l'emisfero orientale della cupola; le immagini, gli altari e il Santuario rimasero sepolti sotto le rovine; ma in breve questo guasto fu riparato, perchè i cittadini di tutte le classi lavorarono con perseveranza a far disparire i rottami, e i meschini avanzi delle loro ricchezze e della loro industria andarono impiegati a rifabbricare il più magnifico e venerabile Tempio dell'Oriente4.
A. D. 1440-1448
Minacciati d'una prossima distruzione la città e l'impero di Costantinopoli, fondavano un'ultima speranza sull'unione della madre e della figlia, sulla tenerezza materna di Roma, e sulla obbedienza filiale di Costantinopoli. Nel Concilio di Firenze, i Greci e i Latini si erano abbracciati, avevano sottoscritto; avevano promesso; ma perfide e vane essendo queste dimostrazioni di amicizia5, tutto l'edifizio dell'unione sfornito di fondamento disparve come un sogno6. L'Imperatore e i suoi prelati partirono sulle galee di Venezia; ma nelle fermate che fecero ai lidi della Morea, alle isole di Corfù o di Lesbo, udirono alte querele sull'unione pretesa, che dovea servire soltanto, diceasi, di nuovo strumento alla tirannide. Sbarcati sulla riva di Bisanzo, li salutarono, o a meglio dire li soprappresero le doglianze generali di una popolazione malcontenta e ferita nel più vivo de' suoi sentimenti, nello zelo religioso. Dopo i due anni che l'assenza della Corte era durata, il fanatismo fermentò nell'anarchia di una Capitale priva di Capi civili ed ecclesiastici; i turbolenti frati, che governavano la coscienza delle femmine e de' devoti, predicavano ai lor discepoli l'odio contro ai Latini, come sentimento primario della natura e della religione. Innanzi di partire per l'Italia, l'Imperatore avea fatto sperare ai suoi sudditi un pronto e possente soccorso; mentre il Clero, altero della sua purità ortodossa, o della sua scienza, riprometteasi, e aveva assicurata al proprio gregge una facile vittoria sui ciechi pastori dell'Occidente. Allorchè si trovarono delusi in questa doppia speranza, i Greci si abbandonarono alla indegnazione; i Prelati, che avevano sottoscritto, sentirono ridestarsi i rimorsi della loro coscienza: il momento del disinganno era venuto; e maggior soggetto aveano di paventare gli effetti del pubblico sdegno, che di sperare la protezione del Papa, o dell'Imperatore. Lungi dal profferire un accento di scusa sulla condotta che tennero, confessarono umilmente la loro debolezza e il lor pentimento, implorando la misericordia di Dio e de' lor compatriotti. A quelli che in tuono di rimprovero lor domandavano qual fosse la conclusione, quali i vantaggi riportati dal Concilio d'Italia, rispondeano con lagrime e con sospiri, «noi abbiam composta una nuova Fede, abbiamo barattata la pietà nell'empietà, abbiurato l'immacolato sagrifizio, siam divenuti azzimiti». Chiamavansi azzimiti coloro che si comunicavano con pane azzimo, o senza lievito, e qui potrei essere costretto a ritrattare, o a schiarir meglio l'elogio che alla rinascente filosofia di quei tempi testè tributai. «Oimè! continuavano essi, ne ha vinti la miseria: ne hanno sedotti la frode, i timori e le speranze di una vita transitoria. Noi meritiamo ne venga troncata la mano che ha suggellato il nostro delitto, ne venga strappata la bocca che ha recitato il simbolo de' Latini». La sincerità del qual pentimento convalidarono prestandosi con maggiore zelo alle più minute cerimonie e al sostegno dei dogmi più incomprensibili. Segregatisi dalla comunione degli altri, non parlavano nemmeno coll'Imperatore, il contegno del quale fu alquanto più decente e ragionevole. Dopo la morte del Patriarca Giuseppe, gli Arcivescovi di Eraclea e di Trebisonda ebbero il coraggio di ricusare la sede rimasta vacante, intanto che il Cardinal Bessarione preferiva l'asilo utile e agiato offertogli dal Vaticano. L'Imperatore ed il Clero elessero, che altra scelta ad essi non rimanea, Metrofane di Cizico; ma quando veniva consagrato in S. Sofia, rimase vuota la chiesa. I vessilliferi della Croce abbandonarono il servigio dell'altare, e la contagione essendosi comunicata dalla città ai villaggi, Metrofane usò invano le folgori della Chiesa contro un popolo di scismatici. Gli sguardi dei Greci si volsero a Marco d'Efeso, difensore del suo paese, e riguardato come santo confessore, i cui patimenti vennero ricompensati con tributo d'applausi e di ammirazione. Ma il suo esempio e i suoi scritti propagarono la fiamma della religiosa discordia, benchè egli soggiacesse ben presto al peso degli anni e delle infermità; perchè l'evangelio di Marco non era un evangelio di tolleranza; onde fino all'estremo anelito chiese non si ammettessero ai suoi funerali i partigiani di Roma che dispensò dal pregare per l'anima sua.
Lo scisma non si ristette fra gli angusti limiti del greco Impero; tranquilli sotto il governo dei Mammalucchi, i Patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme adunarono un numeroso Sinodo, ove negarono la legittimità de' loro rappresentanti a Ferrara e a Firenze, condannando il Sinodo e il Concilio de' Latini, e minacciando l'Imperatore di Costantinopoli delle censure della Chiesa d'Oriente. Tra i settarj della comunione greca, i Russi erano i più potenti, i più ignoranti e superstiziosi: il loro primate, Cardinale Isidoro, corse rapidamente da Firenze a Mosca7 per ridurre sotto l'autorità del Pontefice questa independente nazione: ma i Vescovi russi aveano attinta la loro dottrina fra le celle del monte Atos, e il Sovrano, non men dei sudditi, seguiva le opinioni teologiche del proprio Clero. Il titolo, il fasto, e la croce latina del Legato, amico di quegli uomini empj, così li chiamavano i Russi, che si radeano la barba e celebravano il divin sagrifizio colle mani coperte dai guanti, e le dita cariche di anelli, divennero altrettanti soggetti di scandalo a quella nazione. Condannato Isidoro da un Sinodo, e rinchiuso in un Monastero, non si sottrasse che con grande stento al furore d'un popolo feroce e fanatico8. I Russi inoltre negarono il passo ai Missionarj di Roma che voleano trasferirsi a convertire i Pagani al di là del Tanai9, fondando il loro rifiuto sulla massima che il delitto d'idolatria è men condannevole di quel dello scisma. L'avversione che i Boemi mostrarono al Papa, rendè meritevoli di scusa i loro errori appo il Clero greco che mandò con una deputazione a chiedere in Lega questi sanguinarj entusiasti10. Intanto che Eugenio giubilava della conversione de' Greci, divenuti ortodossi, i partigiani di lui nella Grecia, vedeansi confinati entro le mura, o piuttosto nella reggia di Costantinopoli. Lo zelo di Paleologo eccitato dall'interesse, fu ben tosto raffreddato dalla resistenza, e temè cimentare la propria Corona e la vita, se avesse violentata la coscienza di una nazione, cui non sarebbero mancati soccorritori stranieri e domestici per sostenerla in una santa ribellione. Il Principe Demetrio, fratello dell'Imperatore, il quale soggiornando in Italia, avea serbato un silenzio che era conforme alla prudenza, e che pubblico favore gli conciliò, minacciava d'impugnar l'armi in difesa della religione; intanto l'apparente buon accordo de' Greci e dei Latini cagionava gravi timori al Sultano de' Turchi.
A. D. 1421-1451
«Il Sultano Murad, o Amurat, visse quarantanove anni e ne regnò trenta, sei mesi e otto giorni; Principe coraggioso e giusto, fornito di grande animo, paziente nelle fatiche, istrutto, clemente, caritatevole e pio: amava e incoraggiava gli uomini studiosi e tutto quanto eravi di eccellente nelle scienze e nell'arti. Buon Imperatore e gran Generale, niun altro riportò vittorie tante e sì luminose. La sola Belgrado resistè a' suoi assalti. Sotto il regno del medesimo il soldato fu sempre vittorioso, il cittadino, ricco e tranquillo. Allorchè avea sottomesso un paese, era prima cura di questo principe il fabbricare moschee, ricetti per le carovane, collegi, ospitali. Dava ogn'anno mille piastre d'oro ai figli del Profeta; ne inviava duemilacinquecento alle persone pie della Mecca, di Medina e di Gerusalemme»11. Questo ritratto è tolto da uno storico dell'Impero ottomano. Ma non avvi crudele tiranno che non abbia ottenuti encomj da un popolo schiavo e superstizioso, e le virtù d'un sultano non sono spesse volte che i vizi più utili ad esso o più aggradevoli ai suoi sudditi. Una nazione che non abbia mai conosciuto i vantaggi, eguali per tutti, delle leggi e della libertà12, può lasciarsi sopraffare dalle arti del potere arbitrario. La crudeltà del despota assume indole di giustizia agli occhi dello schiavo che chiama liberalità la profusione, fregia del nome di fermezza la pertinacia. Sotto il regno di colui che non ammette scuse, comunque le più ragionevoli, vi sono pochi atti di sommessione impossibili, e là dove non è sempre in sicuro l'innocenza, dee necessariamente tremare anche il colpevole. Continue guerre mantennero la tranquillità de' popoli e la disciplina de' soldati. La guerra era il mestier dei giannizzeri, fra quali coloro che ne superavano i pericoli, aveano ricca parte alla preda e applaudivano alla generosa ambizion del Sovrano. La legge di Maometto raccomandava al Musulmani di adoperarsi alla propagazione della fede. Tutti gl'Infedeli erano nemici de' Turchi e del loro Profeta; la scimitarra era l'unico strumento di conversione di cui facessero uso i Maomettani. Ciò nullameno la condotta di Amurat, giusto e moderato lo palesò; per tale lo ravvisarono gli stessi Cristiani, che attribuirono la prosperità del suo Regno e la tranquilla sua morte ad un guiderdone largito dal Cielo agli straordinarj meriti di questo Sovrano. Nel vigor degli anni e della militare possanza, poche guerre intimò senza esservi costretto; la sommessione de' vinti facilmente lo disarmava; sacra ed inviolabile erane la parola nell'osservare i Trattati13. Gli Ungaresi quasi sempre furono gli aggressori. La ribellione di Scanderbeg l'irritò. Il perfido Caramano vinto due volte, due volte ottenne da Amurat il perdono. Tebe sorpresa dal despota, giustificò l'invasione della Morea: il pronipote di Baiazetto avrebbe potuto facilmente ritorre Tessalonica ai Veneziani che sì di recente l'aveano acquistata. Dopo il primo assedio di Costantinopoli, la lontananza, le sventure di Paleologo, le ingiurie che da lui sofferse Amurat, mai non indussero questo Sultano ad affrettare gli estremi momenti del greco Impero.
A. D. 1443
Ma il tratto più luminoso dell'indole e della vita di Amurat, fu quello senza dubbio di rinunziare il trono due volte. Se i motivi che il mossero non fossero stati inviliti da una mescolanza di superstizione, non potremmo ricusare encomj ad un Monarca filosofo14 che, nell'età di quarant'anni, seppe discernere il nulla delle umane grandezze. Dopo avere rimesso lo scettro fra le mani del figlio, alle deliziose stanze di Magnesia si ritirò, ma cercando ivi la compagnia de' Santi e degli Eremiti15. Non prima del quarto secolo dell'Egira, la religione di Maometto si era lasciata corrompere ammettendo istituzioni monastiche alla sua indole tanto opposte. Ma durante le Crociate, l'esempio de' Monaci cristiani, greci ed anche latini, moltiplicò i varj Ordini di Dervis16. Il padrone delle nazioni si assoggettò a digiunare, ad orare, o a girar continuamente in tondo con altri fanatici che confondeano il capogiro colla luce del divino spirito17. Ma l'invasione degli Ungaresi il tolse ben tosto da questo entusiastico sonno, e il figlio di lui prevenne il voto del popolo volgendosi nell'istante del pericolo al padre. Sotto la condotta dell'antico Generale, i giannizzeri furono vincitori; ma reduce dal campo di battaglia di Warna, ripetè le sue preci, i suoi digiuni, i suoi giri in tondo coi compagni del suo ritiro a Magnesia: pietose occupazioni da cui lo trassero una seconda volta i pericoli dello Stato. L'esercito vittorioso disdegnò l'inesperienza del figlio; Andrinopoli fu abbandonata al saccheggio e alla strage; la sommossa de' giannizzeri indusse il Divano a sollecitare la presenza di Amurat per impedire l'assoluta ribellione di questa guardia; riconobbero essi la voce del lor padrone, tremarono ed obbedirono; e il Sultano videsi a proprio malgrado costretto a soffrire il suo luminoso servaggio, da cui in capo a quattro anni l'Angelo della morte lo liberò. L'età o le malattie, il capriccio o la sventura, hanno spesse volte costretti molti Principi a scender dal trono, ed hanno avuto tempo per pentirsi di questa irrevocabile risoluzione. Ma il solo Amurat, libero di scegliere, e dopo avere sperimentati e l'Impero e la solitudine, diede per una seconda volta alla vita privata la preferenza.
Dopo la partenza dei Greci, Eugenio non avea dimenticati i loro temporali interessi; e questa tenera sollecitudine del Pontefice a favore dell'Impero di Bisanzo era animata dalla paura di vedere i Turchi avvicinarsi alle coste d'Italia, e forse ben presto invaderle. Ma lo spirito che avea prodotte le prime Crociate, essendo svanito, i Franchi mostrarono una indifferenza così poco ragionevole, come il tumultuoso loro entusiasmo lo fu. Nell'undecimo secolo, un frate fanatico avea saputo spingere tutta l'Europa contro dell'Asia per liberare il Santo Sepolcro; nel decimoquinto i più possenti motivi di politica e di religione non bastarono ad unire i Latini per la comune difesa della Cristianità. Certamente l'Alemagna potea dirsi un ricettacolo non mai vôto di armi e di soldati18
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На этой странице вы можете прочитать онлайн книгу «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13», автора Эдварда Гиббона. Данная книга имеет возрастное ограничение 12+, относится к жанру «Зарубежная старинная литература».. Книга «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13» была издана в 2017 году. Приятного чтения!
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