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Annie Vivanti
Vae victis! Romanzo

I

La prima ad essere pronta fu Chérie. Si gettò sulle spalle il lungo accappatoio a righe e si chinò a sollevare Amour che le abbaiava alle calcagne rosee e si torceva per l'impazienza di uscire.

«Au revoir dans l'eau», disse la fanciulla con allegro gesto di saluto alla piccola Mirella e a Frida, la governante tedesca.

«Oh, Frida! Vite, vite, dégrafez-moi!» gridò Mirella volgendo le spalle alla giovane donna e indicandole con dito impaziente un gruppo di fettucce annodate che le pendevano dietro.

«Parlate tedesco, l'ho già detto a tutt'e due. Oggi è il vostro giorno di tedesco,» ammonì Frida, sciogliendo con lentezza il groviglio di nodi, mentre Mirella pestava i piedi per l'impazienza.

Indi ritta in sottana e copribusto davanti allo specchio la governante si tolse d'in cima al capo ciò che le ragazze chiamavano il suo «Wurst.» Nello specchio scorse Chérie che si avviava verso la porta, e la richiamò, severa:

«Chérie! voi non andrete per la strada senza calze e senza cappello!»

«Ma Frida, che storie! A Westende tutti vanno al bagno così.» E Chérie levò in aria la rosea gamba ben tornita sventolandola davanti ad Amour per farlo abbaiare.

«Non importa come vanno gli altri. Voi non andrete così;» disse Frida Rothenstein, e spazzolò il suo bruno e lucido «Wurst» prima di appenderlo accuratamente alla cornice dello specchio.

«Allora, cosa siamo venuti qui a fare?» disse Chérie imbronciata, lasciando cadere Amour e dandogli un piccolo calcio col piede nudo. Amour, offeso, si ritrasse sotto al letto.

«Siamo venute qui», sentenziò con teutonica pesantezza Frida, «per godere delle salubri gioie del mare, e non già per esporre sulle pubbliche vie le nostre gambe denudate».

Mirella diede in uno scoppio di riso, e a quel suono rassicurante Amour tornò fuori da sotto al letto e ricominciò ad abbaiare.

Chérie stringendosi nelle spalle traversò la stanza e andò alla sedia dove aveva gettato in tutta fretta le sue vesti. «Se metto i sandali, mi pare che basterà.»

«No, non basta. Sandali e calze», disse Frida. «E cappello», soggiunse, lanciando un'occhiata severa a quella leggiadra testa china, da cui pendevano in lunghi ondeggiamenti le chiome fulvo-dorate.

Chérie si mise in fretta e furia le calze nere, occhieggiando ridente a Mirella; e nulla poteva esser più dolce a vedersi di quelle pupille rilucenti traverso il velo dei capelli sciolti.

Eccola pronta; il largo cappello a pastorella calcato sui baldi riccioli, Amour stretto nuovamente sotto al braccio; e con un cenno di commiserazione a Mirella – fremente d'impazienza per dover aspettare Frida – ella corse giù per la stretta scala di legno di Villa Esther (chez Madame Guillaume) e fuori, col viso ridente rivolto al mare.

La breve rue dei Moulins di Westende, per metà non ancora fiancheggiata da fabbricati, parte da un nuovo «hangar» per aeroplani e conduce alla larga passeggiata asfaltata che costeggia il mare. Chérie v'incontrò qualche altro bagnante. Alcuni uomini tornavano dalla spiaggia, in maglia rigata, nude le gambe abbronzate, con un asciugamano bagnato intorno al collo e i capelli umidi appiccicati sulle gote. Essi passarono accanto alla figuretta pittoresca nel succinto costume da bagno rosso, senza quasi guardarla; già, lungo tutta la spiaggia – da Nieuport, venti minuti verso Ovest, fino ad Ostenda, a mezz'ora verso Est – se ne vedevano a centinaia di questi graziosi tipi di scolaretta lanciati a volo sulle sabbie; mentre tutte le «figlie di gioia» da Bruxelles, Namur e Spa, aggiungevano la loro nota più acre e provocante all'azzurra gaiezza della scena estiva.

Chérie, passando davanti al negozio di biciclette, salutò con un cenno della mano Cirillo Wibon, che inginocchiato davanti alla sua «pétrolette» da corsa, ne lavava il naso lucente colla tenerezza d'una nutrice e l'orgoglio di un padre.

«Non scordate le due biciclette, alle undici, sulla spiaggia», gridò Chérie in fiammingo, e Cirillo sollevando rapidamente l'indice ai bruni capelli fè cenno d'aver inteso.

Chérie proseguì quasi correndo traverso la larga passeggiata e scese a salti gli scalini che vanno alle sabbie, quelle vaste sabbie di Westende da cui si vede un orizzonte di tre quarti di cerchio, quelle sabbie che vanno a perdersi nelle tragiche dune deserte. Chérie si lasciò cadere dalle braccia Amour che, fatto un ruzzolone, si raddrizzò, scavò in fretta colle zampe posteriori una breve serie di buchi nella sabbia e poi si allontanò di trotto in cerca di certi suoi odiati nemici contro cui nutriva foschi e perpetui rancori: un levriere scarno e pretenzioso, un impertinente fox-terrier, e un vilissimo cagnolino nero, tremebondo, di cui i gusti e la storia non comportano indagini.

Chérie s'inoltrò attraverso il mezzo chilometro di arena asciutta nella quale i suoi piedi affondavano ad ogni passo; giunta alla superficie liscia che la marea scendente lascia dura e levigata, tolse rapida accappatoio, cappello, sandali e calze; e a passetti brevi, in punta de' piedi corse nell'acqua. Lesta e leggera traversò a piccoli salti le prime arricciature delle onde finchè l'acqua non le cinse i ginocchi, e la gonnellina rossa si gonfiò a pallone tutto intorno a lei. E corse avanti con piccoli brividi e grida di piacere, alzando le bianche braccia al di sopra della testa, mentre l'acqua saliva e l'accerchiava del suo fresco e forte abbraccio. Il sole gettava una rete di brillanti sul mare di raso celeste; e la fanciulla sentì improvvisa in sè come una cosa selvaggia e viva la gioia dell'esistenza.

Congiunse in alto la punta delle dita, e si tuffò nelle scintillanti acque; indi ne emerse, ricacciando dalla fronte colla manina bagnata i bagnati capelli. E si spinse al largo, nuotando, verso il cerulo orizzonte, sognando di nuotare e nuotare così, per sempre, e andarsi a perdere nell'infinita azzurrità del mondo.

Un aeroplano tornando da Blankenberghe a Nieuport passò con iroso ronzìo, e Chérie si volse e nuotò supina per vederlo meglio; lo salutò agitando il braccio ignudo e sgocciolante.

Per un istante ebbe l'impressione che l'aeroplano facesse un tuffo e stesse quasi per caderle addosso; indi lo seguì collo sguardo, trattenendo il respiro, inquieta per la salvezza del pilota, finchè non si dileguò nella lontananza. Allora si rivolse e riprese a nuotare, guardando verso la spiaggia lontana, per vedere se appariva Mirella.

Sì, sì! Ecco laggiù la stecchita siloetta di Frida, e accanto a lei l'ancor più stecchita siloetta di Mirella, di cui le esili gambette non avevano percorso che dieci brevi aprili. La sua chiara voce infantile trafisse l'aria.

«Chéri-i-e! Chéri-i-e! Torna indietro! Vieni a prendermi!»

E Chérie, con un sospiro, nuotò pianamente verso la spiaggia.

Mirella le corse incontro, mandando a spruzzi l'acqua con molti strilli d'allegria, mentre Frida si fermò vicino alla riva dove l'acqua era alta pochi centimetri. Ivi compì una serie di riti igienici, bagnandosi prima la fronte, poi il petto, e poi ancora la fronte e finalmente sedendo solennemente nell'acqua il tempo di contare da uno a cento.

Così, concluso il suo bagno, la governante tedesca – con molte raccomandazioni gridate a Chérie e Mirella che non l'ascoltavano – tornò a casa a vestirsi.

Un'ora dopo ella apparve di nuovo sulla spiaggia, correttamente abbigliata nel suo Reformkleid, colla salsiccia di capelli asciutti riinstallata a sommo della testa ancora umida. Girando gli occhi intorno in cerca delle due fanciulle le vide stese immobili sulla sabbia, supine, ad occhi chiusi, sotto il sole cocente. Facevano finta d'essere morte; e davvero, pensò Frida nel guardarle così piccole e immote su quella immensità sabbiosa, parevano due poveri esseri affogati, due meschini brandelli d'umanità che il mare avesse rigettato sulla sponda. Prima ancora che arrivasse vicino a loro le passò d'accanto come una saetta Cirillo, il maestro di bicicletta – l'uomo-scimmia, come lo chiamavano le ragazze. Egli andava a tutta velocità – pedalando su di una macchina e guidando l'altra – verso quelle due piccole figure sdraiate. Esse, appena lo udirono, balzarono in piedi; e prima che Frida potesse arrivare a loro, Mirella era già issata su una vecchia bicicletta rugginosa, mentre Chérie – snella figuretta scarlatta, i capelli aurati al vento, le braccia e le gambe candide biancheggianti fuor del vestitino rosso – filava via, già lontana, sulla sabbia elastica e liscia.

«Non approvo», ansò Frida correndo a fianco di Mirella, traballante sul suo ferravecchio mentre l'uomo-scimmia le trotterellava dietro reggendo il sellino, «non approvo questo andare in bicicletta in costume da bagno....»

«Oh, Frida, smetti di sgridarmi, che mi fai cadere,» gridò Mirella, e infatti, dopo varie terrificanti oscillazioni, la bicicletta descrisse un rapido semicerchio, e corse giù nel mare.

Mirella fu molto in collera con Frida e colla bicicletta, e coll'uomo-scimmia; questi, ridendo coi denti molto bianchi nella faccia molto nera, la rimise in sella.

Frida si stancò presto di seguirli e andò a sedersi vicino ad una barca capovolta a leggere «Der Trompeter von Säkkingen».

Säkkingen! Mentre gli occhi di Frida sfioravano le pagine nitidamente stampate e s'indugiavano sull'incisione d'un campanile e d'un ponte, l'anima sua ritornava alla piccola città lontana, sul Reno. Perchè Frida, come il famoso trombettiere dello Scheffel, era oriunda di Säkkingen; i suoi piedi, calzati di solide e quadre scarpe tedesche, avevano barcollato, trotterellato, corso, e passeggiato nelle diverse età di sua vita, su quel famoso ponte coperto; ella s'era affacciata, coi gomiti sul davanzale, a quelle piccole finestre infiorate, mandando i suoi sogni di fanciulla a navigare sulle acque sonnolenti del Reno. Era passata, tutte le mattine andando a scuola, davanti al monumento piccolo e tozzo di Victor von Scheffel; ed ogni sera tornando a casa aveva alzato gli occhi alle finestre chiuse di quella bianca casa accanto al ponte che era stata quella del poeta. Säkkingen – colle sue strade bianche e pulite, la sua Kaffee-Halle dipinta in bianco e celeste, le sue panetterie olezzanti di freschi Kuchen e Schnecken.... Frida alzò gli occhi dal libro per gettare uno sguardo pieno d'ira e di rancore sulle danzanti acque del Mare del Nord, sulla piana e ridente spiaggia belga, sulle figurette lontane di Chérie e di Mirella, sull'uomo-scimmia, e perfino sullo scodinzolante Amour e i suoi compagni d'iniquità. Li odiava tutti. Sì, li odiava. Egoisti tutti quanti, volgari, frivoli, senza poesia nell'anima. In questo paese non c'era senso religioso; non c'era senso d'ordine; la cucina era pessima… Frida scosse amaramente il capo: «Das Land das meine Sprache spricht....», ella mormorò, nostalgica e sospirosa.

Poi riprese il suo libro, e lesse le considerazioni che faceva Hidigeigei, gatto e filosofo, intorno alla primavera e all'amore:

 
Warum küssen sich die Menschen?
Warum meistens nur die Jungen?
Warum diese meist im Frühjahr?…
 
* * *

Quella sera Mirella udendo il fischio del portalettere andò ad aprirgli. Egli le consegnò due lettere, e la bimba – nascondendone una dietro alla schiena – tornò nel salotto dove Frida e Chérie sedevano lavorando. Lesse ad alta voce, con esasperante lentezza, l'indirizzo dell'altra:

«Mademoiselle – Chérie – Brandès – Villa – Esther....»

«Dà qui, dà qui», esclamò Chérie, allungando la mano impaziente.

«E' di Lulù», disse Mirella, porgendo la lettera a Chérie e tenendo l'altra ancora nascosta dietro le spalle.

«Lulù! Che modo è questo di parlar di vostra madre!» rimbrottò Frida.

«Ma se a lei piace!» rispose ridendo Mirella. «Del resto anche Chérie la chiama così.»

«Chérie è sua cognata, non è sua figlia», sentenziò Frida; poi scorgendo d'un tratto l'altra lettera in mano a Mirella: «Per chi è quella lettera?»

«Hochwolgeborenes Fräulein Frida Rothenstein», declamò Mirella; ma Frida era già balzata in piedi, e le strappò la lettera di mano.

«Uh, che sgarbata!» fece Mirella. «E chi è che ti scrive? E' la nostra carta da lettere; ma non è la scrittura di Lulù, e neppure di Papà. Chi è che ti scrive tutte quelle sciocchezze di hochwolgeboren sulla busta?»

Nessuno rispose. Con occhi intenti Frida e Chérie leggevano le loro lettere. E Mirella continuò il suo monologo. «Scommetto che è di Fritz. Il domestico di Papà! Immaginiamoci! Una hochwolgeborene Signorina che riceve lettere da un servitore!»

Frida non si degnò di rispondere; nè sollevò gli occhi dal foglio che teneva in mano; eppure – Mirella lo vedeva – non vi era che una riga di scritto. Quattro o cinque parole, nulla più. Ma Frida sedeva immobile, impietrita, come se quel breve messaggio l'avesse mutata in una statua di sasso.

Ed ora Chérie, che aveva finito di leggere la sua lettera, sollevò il viso costernato.

«Frida! Mirella!… Sapete che cosa accade? Dobbiamo tornare a casa domani.»

«Domani?» gridò Mirella. «Ma cosa dici? Papà ha detto che dobbiamo star qui due mesi e non siamo arrivate che quattro giorni fa!»

«Lo so. Ma la tua mamma scrive che si deve tornare subito a casa. Hai sentito, Frida?»

Frida nè rispose, nè alzò gli occhi.

«Ma perchè? perchè?» ripeteva Mirella quasi piangendo. «Ma dunque non lo sa Lulù che abbiamo fissato di festeggiar qui il tuo compleanno?… E che Lucilla e Jeannette e Cricri vengono tutte qui apposta?»

«Lo sa, lo sa», rispose Chérie volgendo i suoi dolci occhi perplessi dal visino sconcertato di Mirella al volto impassibile di Frida. «Ma dice.... dice che sta per scoppiare la guerra.»

«La guerra? Ebbene? E che cosa c'entra con noi la guerra?» esclamò Mirella risentita. «Oh, che rabbia, che rabbia! E dire che avevo imparato a nuotar tanto bene, toccando terra con un piede solo!»

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